Cassazione
, sez. lavoro, 15/05/2014, n. 10662
(Omissis)
Svolgimento
del processo
1.-
La sentenza attualmente impugnata - decidendo sull'appello principale
di San Paolo IMI s.p.a. avverso la sentenza del Pretore di
Civitavecchia del 17 gennaio 2003 e sul riunito appello incidentale
di P.M.P., contro la medesima sentenza - accoglie l'appello
principale e, riformando la sentenza appellata, respinge la
originaria domanda proposta dalla P. nei confronti della suddetta
società e rigetta l'appello incidentale.
La
Corte d'appello di Roma, per quel che qui interessa, precisa che:
a)
il presente licenziamento si collega alla vicenda penale che ha
coinvolto il direttore della filiale di (OMISSIS) del suindicato
istituto bancario e la P., che ivi svolgeva mansioni di addetta
all'Ufficio Fidi;
b)
quanto alla questione posta dall'appellante incidentale - ed avente
valenza preliminare - della specificità della contestazione, in base
alla giurisprudenza di legittimità, deve essere confermata la
decisione del primo giudice secondo cui la lavoratrice incolpata è
stata posta in condizione di esercitare pienamente il proprio diritto
di difesa in sede disciplinare perchè il riferimento alle accuse
formulate in sede penale - di associazione per delinquere,
estorsione, falso, ricettazione aggravati - contenuto nella lettera
di contestazione degli addebiti posti a base del licenziamento, è
stato espressamente effettuato "indipendentemente dalla
eventuale qualificazione della... valenza penale" di tali fatti
e con riferimento specifico al contrasto dei suddetti comportamenti
ai doveri di ufficio, prescritti dalla contrattazione collettiva;
c)
le doglianze dell'appellante principale sono incentrate sulla
valutazione delle prove dei fatti contestati e posti a base del
licenziamento, avendo il primo giudice ritenuto che, in sede civile,
non sia stata raggiunta la prova dei gravi fatti addebitati alla
lavoratrice;
d)
al riguardo è incontestato che: 1) la P. era stata addetta, fin
dalla sua apertura (in data 26 giugno 1991) alla filiale di (OMISSIS)
dell'Istituto San Paolo; 2) le erano state affidate mansioni di
addetta alla segreteria fidi; 3) dal 31 maggio 1993 rivestiva la
qualifica di quadro; 4) dal 16 agosto 1994 era stata addetta al
settore dei finanziamenti alla clientela, in posizione immediatamente
subordinata alla direzione (affidata a T.F.) e alla vice-direzione;
e)
dagli accertamenti svolti in sede penale è emerso che, dall'autunno
1992 al 1994, era stato organizzato dal T. un complesso sistema
estorsivo in danno dei clienti della banca del quale la P. era
pienamente a conoscenza, visto che il supporto operativo da lei
fornito costituiva un momento indispensabile per l'attuazione e la
copertura delle attività illecite, come evidenziato dalla
testimonianza di C.L., responsabile della ispezione eseguita presso
la filiale dopo le denunce dei clienti;
f)
dagli accertamenti compiuti in sede penale e sottoposti al vaglio del
GIP per il rinvio a giudizio - non presi in considerazione dal
Pretore di Civitavecchia - risulta la partecipazione della P. alla
organizzazione delittuosa, sulla base di specifiche circostanze non
adeguatamente contestate dall'interessata e confermate anche dalla
sentenza del Tribunale di Roma del 30 novembre 2006, la quale ha
assolto la P. dai reati di estorsione per mancanza di prova
sull'elemento psicologico e dichiarato la prescrizione degli altri
reati;
g)
quanto alla valenza probatoria di tale ultima sentenza - la cui
produzione nel giudizio di appello è stata ammessa, trattandosi di
un documento formato dopo la proposizione dell'atto di appello - si
osserva che, in base alla giurisprudenza di legittimità, il giudice
civile può utilizzare come fonte del proprio convincimento le prove
raccolte in un giudizio penale già definito, ancorchè con sentenza
di non doversi procedere per intervenuta prescrizione, ponendo a base
delle proprie conclusioni gli elementi di fatto già acquisiti con le
garanzie di legge in quella sede e sottoponendoli al proprio vaglio
critico, mediante il confronto con gli elementi probatori emersi nel
giudizio civile (Cass. 29 ottobre 2010, n. 22200);
h)
dalla sentenza penale risulta - sia per i reati di estorsione sia per
i reati dichiarati prescritti - la sussistenza di specifici elementi
di responsabilità della lavoratrice che forniscono la prova delle
commissione dei comportamenti contestati in sede disciplinare, tutti
valutabili ex art. 2119 c.c., come negazione del vincolo di fiducia
che connota il rapporto di lavoro e riconducibili agli illeciti
disciplinari previsti dagli artt. 20 e 21 del contratto integrativo
aziendale, con specifico riguardo all'utilizzazione dell'impiego a
fini personali, all'abuso grave di fiducia, all'accettazione di
compensi su affari trattati per ragioni di ufficio, alla violazione
dolosa dei doveri di ufficio con pregiudizio dell'azienda;
i)
deve essere, pertanto, affermata la legittimità del licenziamento,
in considerazione del carattere reiterato della condotta, della
gravità degli abusi e della illiceità della condotta stessa, del
danno anche patrimoniale cagionato alla banca (citata in giudizio dai
soggetti danneggiati), della posizione professionale della P.,
richiedente un elevato grado di affidabilità.
2-
Il ricorso di P.M.P. domanda la cassazione della sentenza per cinque
motivi; resiste, con controricorso, San Paolo IMI s.p.a..
Entrambe
le parti depositano anche memorie ex art. 378 c.p.c.. Motivi della
decisione
1
- Sintesi dei motivi di ricorso.
1.-
Il ricorso è articolato in cinque motivi.
1.1-
Con il primo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione
dell'art. 7 dello Statuto dei lavoratori.
Si
contesta l'affermazione della Corte d'appello secondo cui, nella
specie, sarebbe stato rispettato il principio di specificità della
contestazione disciplinare, come già ritenuto nella sentenza di
primo grado.
Si
sottolinea che tale statuizione si basa sull'assunto secondo cui il
suddetto principio può considerarsi rispettato anche attraverso il
rinvio per relationem ad altri atti e, nella specie, con il richiamo
dell'atto di rinvio a giudizio in sede penale.
Si
sostiene che tale assunto - corretto in astratto - nella specie si
rivelerebbe inesatto in quanto l'atto di rinvio a giudizio de quo era
molto complesso e vasto e si riferiva a più persone, cui erano
contestati diversi reati sicchè era praticamente impossibile per la
P. individuare le singole azioni o omissioni di cui doveva rispondere
in sede disciplinare.
1.2.-
Con il secondo motivo si denuncia, in relazione all'art. 360 c.p.c.,
n. 3, violazione e falsa applicazione della L. n. 604 del 1966, art.
5.
In
via gradata e subordinata rispetto al precedente motivo, si sostiene
che l'istituto bancario datore di lavoro non ha provato in modo
specifico in sede civile ciò che era stato contestato in sede
penale.
Pertanto
il licenziamento avrebbe dovuto essere considerato illegittimo per
mancanza di prova, come correttamente affermato dal primo giudice.
1.3.-
Con il terzo motivo si denuncia, in relazione all'art. 360 c.p.c., n.
3, violazione e/o falsa applicazione dell'art. 111 Cost., e dell'art.
115 c.p.c..
L'art.
111 Cost., sarebbe stato violato per il fatto che la fase di appello
è durata oltre sette anni in attesa di documenti e, poi, della
sentenza penale, così consentendo al datore di lavoro - che aveva
scelto di effettuare il licenziamento prima della conclusione del
processo penale - di non assolvere l'onere probatorio a proprio
carico, potendo il giudice civile fare riferimento agli atti del
procedimento penale, come è accaduto.
1.4.-
Con il quarto motivo si denuncia, in relazione all'art. 360 c.p.c.,
n. 5, motivazione carente e contraddittoria rispetto ai fatti che
hanno portato al licenziamento.
Si
sostiene che nella sentenza impugnata vi sarebbe un "salto
logico che rappresenta un'evidente contraddittorietà della
motivazione" che sarebbe rappresentato dal fatto di avere
desunto da una situazione certa - l'inserimento della ricorrente
nell'azienda come quadro, nell'ambio del settore fidi - la sicura sua
presenza e partecipazione allo svolgimento dell'attività illecita in
oggetto, in assenza di prove specifiche sul punto ma ricavando tali
prove da circostanze incerte o neutre come l'aver ricevuto fuori
orario una delle persone offese dai reati.
Tali
circostanze sono state recepite dalla sentenza penale di primo grado
- non passata in giudicato, ma anzi riformata in appello - senza
tenere conto delle prove espletate in sede civile e senza fare
riferimento neppure alle prove raccolte nel procedimento penale o
acquisire i verbali di udienza di tale procedimento, sicchè
l'accertamento della responsabilità disciplinare della ricorrente ai
fini del licenziamento di fatto è stato demandato al giudice penale.
Ciò
ha portato ad una serie continua di rinvii del processo civile, in
attesa che il giudice penale prendesse una decisione su circostanze
che, in sede civile, erano prive di prova, ma che, anche nella
sentenza penale sono risultate sfornite di specifici riferimenti a
sfavore della P..
1.5
- Con il quinto motivo si denuncia, in relazione all'art. 360 c.p.c.,
n. 3, violazione e falsa applicazione dell'art. 421 c.p.c..
Si
ribadisce che la già contestata scelta della Corte romana di fare
riferimento al processo penale - così demandando al giudice penale
l'accertamento anche della legittimità o meno del licenziamento per
fatti e circostanze che avrebbero dovuto essere provati dal datore di
lavoro -
avrebbe
dovuto, quanto meno, comportare l'acquisizione anche dei verbali di
udienza del processo penale, per consentire alla ricorrente di
difendersi adeguatamente in sede civile.
3
- Esame delle censure.
2.-
Il ricorso è da respingere, per le ragioni di seguito esposte.
3.-
Il primo motivo è infondato in quanto, diversamente da quanto
sostiene la ricorrente, nella specie non è configurabile alcuna
violazione della L. n. 300 del 1970, art. 7, da parte della Corte
territoriale, salvo restando che l'accertamento relativo alla
sussistenza del requisito della specificità della contestazione trae
fondamento da una indagine di fatto, che, come tale, è incensurabile
in sede di legittimità, salva la verifica di logicità e congruità
delle ragioni esposte dal giudice di merito (vedi, per tutte: Cass.
30 marzo 2006, n. 7546).
3.1.-
Nella specie, dalla motivazione della sentenza impugnata risulta che
il Giudice d'appello - dandone adeguata e logica giustificazione - a
proposito della questione relativa alla specificità della
contestazione disciplinare, ha ritenuto di confermare la decisione
del primo giudice secondo cui la lavoratrice incolpata è stata posta
in condizione di esercitare pienamente il proprio diritto di difesa
in sede disciplinare perchè il riferimento alle accuse formulate in
sede penale - di associazione per delinquere, estorsione, falso,
ricettazione aggravati - contenuto nella lettera di contestazione
degli addebiti posti a base del licenziamento, è stato espressamente
effettuato "indipendentemente dalla eventuale qualificazione
della... valenza penale" di tali fatti e con riferimento
specifico al contrasto dei suddetti comportamenti ai doveri di
ufficio, prescritti dalla contrattazione collettiva.
Tale
statuizione è del tutto conforme ai consolidati e condivisi principi
affermati dalla giurisprudenza di questa Corte, cui ha fatto
riferimento il Giudice di appello, secondo cui:
a)
la previa contestazione dell'addebito, necessaria in funzione di
tutte le sanzioni disciplinari, non richiede l'osservanza di schemi
prestabiliti e rigidi, come accade nella formulazione dell'accusa nel
processo penale, assolvendo esclusivamente alla funzione di
consentire al lavoratore incolpato di esercitare pienamente il
proprio diritto di difesa (vedi per tutte: Cass. 10 giugno 2004, n.
11045 e Cass. 3 marzo 2010, n. 5115);
b)
pertanto, per il rispetto di tale incombente è sufficiente che
vengano fornite al lavoratore le indicazioni necessarie ed essenziali
per individuare, nella sua materialità, il fatto o i fatti nei quali
il datore di lavoro abbia ravvisato infrazioni disciplinari o
comunque comportamenti in violazione dei doveri di cui agli artt.
2104 e 2105 c.c. (ex plurimis:Cass. 10 giugno 2004, n. 11045);
c)
in particolare, la regola della specificità della contestazione
dell'addebito non richiede necessariamente - ove questo sia riferito
a molteplici fatti - l'indicazione anche del giorno e dell'ora in cui
gli stessi fatti sono stati commessi, essendo invece sufficiente che
il tenore della contestazione sia tale da consentire al lavoratore di
individuare, nella loro materialità, i fatti nei quali il datore di
lavoro abbia ravvisato infrazioni disciplinari (o comunque
comportamenti contrari ai doveri di cui agli artt. 2104 e 2105 c.c.),
di comprendere l'accusa rivoltagli e di esercitare il diritto di
difesa (tra le altre: Cass. 7 agosto 2003, n. 11933; Cass. 5 luglio
2013, n. 16831);
d)
sicchè, non essendo richiesta l'osservanza di schemi formali
prestabiliti e essendo solo sufficiente che la contestazione degli
addebiti disciplinari consenta al lavoratore incolpato di esercitare
pienamente il proprio diritto di difesa in sede disciplinare, è
pienamente ammissibile la contestazione per relationem mediante il
richiamo ad atti del procedimento penale instaurato a carico del
lavoratore per fatti e comportamenti rilevanti anche ai fini
disciplinari, ove le accuse formulate in sede penale siano a
conoscenza dell'interessato, perchè, anche in tale ipotesi,
risultano rispettati i principi di correttezza e garanzia del
contraddittorio (vedi, tra le molte: Cass. SU 9 marzo 1996, n. 1921;
Cass.
3 marzo 2010, n. 5115 cit; Cass. 17 novembre 2010, n. 23223).
3.2.-
A fronte di questa situazione le censure della ricorrente appaiono
destituite di fondamento, tanto più che l'assunto secondo il quale,
nella specie, la complessità dell'atto di rinvio a giudizio in sede
penale non avrebbe consentito alla P. di individuare le singole
azioni o omissioni di cui doveva rispondere in sede disciplinare,
risulta essere stato prospettato non solo impropriamente come vizio
di violazione di legge, ma anche senza il dovuto rispetto del
principio di specificità dei motivi di ricorso per cassazione, in
base al quale il ricorrente qualora proponga delle censure attinenti
all'esame o alla valutazione di documenti o atti processuali è
tenuto ad assolvere il duplice onere di cui all'art. 366 c.p.c., n.
6, e all'art. 369 c.p.c., n. 4, (vedi, per tutte:
Cass.
SU 11 aprile 2012, n. 5698; Cass. SU 3 novembre 2011, n. 22726).
4.-
Anche il secondo, il terzo e il quarto motivo - da esaminare
congiuntamente, data la loro intima connessione - non sono fondati.
4.1.-
In primo luogo, deve essere rilevato che tutte le censure proposte
con i suddetti motivi - nonostante il formale richiamo alla
violazione di norme di legge, contenuto nell'intestazione del secondo
e del terzo motivo - si risolvono nella denuncia di vizi di
motivazione della sentenza impugnata non per errori di logica
giuridica che renderebbero la motivazione stessa incongrua o
incoerente, ma per errata valutazione del materiale probatorio
acquisito, ai fini della ricostruzione dei fatti, con particolare
riferimento alla affermazione della partecipazione della ricorrente
allo svolgimento dell'attività illecita che ha dato origine al
procedimento penale di cui si tratta.
Al
riguardo, infatti, si sostiene che la Corte romana da una situazione
certa - rappresentata dall'inserimento della ricorrente nell'azienda
come quadro, nell'ambio del settore fidi - avrebbe desunto la
partecipazione della P. al complesso sistema estorsivo in danno dei
clienti della banca organizzato dal direttore del settore cui era
addetta, in assenza di prove specifiche sul punto ma ricavando tali
prove da circostanze incerte o neutre recepite dalla sentenza penale
di primo grado - non passata in giudicato, ma anzi riformata in
appello - e, quindi, di fatto, demandando al giudice penale
l'accertamento della responsabilità disciplinare della ricorrente ai
fini del licenziamento.
Ne
deriva che, nella sostanza, la ricorrente, prospetta un coordinamento
dei dati acquisiti al processo asseritamente migliore o più
appagante rispetto a quello adottato nella sentenza impugnata, che
però riguarda aspetti del giudizio interni all'ambito di
discrezionalità di valutazione degli elementi di prova e
dell'apprezzamento dei fatti che è proprio del giudice del merito,
in base al principio del libero convincimento del giudice, sicchè la
violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. - apprezzabile, in sede di
ricorso per cassazione, nei limiti del vizio di motivazione di cui
all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, - deve emergere direttamente
dalla lettura della sentenza, non già dal riesame degli atti di
causa, inammissibile in sede di legittimità (Cass. 26 marzo 2010, n.
7394; Cass. 6 marzo 2008, n. 6064; Cass. 20 giugno 2006, n. 14267;
Cass.
12 febbraio 2004, n. 2707; Cass. 13 luglio 2004, n. 12912;
Cass.
20 dicembre 2007, n. 26965; Cass. 18 settembre 2009, n. 20112).
4.2.-
Nella specie dalla sentenza impugnata risulta che la Corte
territoriale è giunta ad affermare la legittimità del licenziamento
- in considerazione del carattere reiterato della condotta, della
gravità degli abusi e della illiceità della condotta stessa, del
danno anche patrimoniale cagionato alla banca (citata in giudizio dai
soggetti danneggiati), della posizione professionale della P.,
richiedente un elevato grado di affidabilità - sulla base degli
elementi di fatto già acquisiti, con le garanzie di legge in sede
penale, risultanti dalla sentenza del Tribunale di Roma del 30
novembre 2006, la quale ha assolto la P. dai reati di estorsione per
mancanza di prova sull'elemento psicologico e dichiarato la
prescrizione degli altri reati ascrittile.
Ma
ciò il Giudice di appello ha fatto sottoponendo i suddetti elementi
al proprio vaglio critico e valutandone ex art. 2119 c.c., la loro
rilevanza al fine della negazione del vincolo di fiducia che connota
il rapporto di lavoro nonchè la loro riconducibilità agli illeciti
disciplinari previsti dagli artt. 20 e 21 del contratto integrativo
aziendale, con specifico riguardo all'utilizzazione dell'impiego a
fini personali, all'abuso grave di fiducia, all'accettazione di
compensi su affari trattati per ragioni di ufficio, alla violazione
dolosa dei doveri di ufficio con pregiudizio dell'azienda.
Ne
consegue che la Corte romana si è conformata al pertinente
orientamento di questa Corte, condiviso dal Collegio, in base al
quale il giudice civile, può utilizzare come fonte del proprio
convincimento le prove raccolte in un giudizio penale, già definito,
ancorchè con sentenza di non doversi procedere per intervenuta
prescrizione, ponendo a base delle proprie conclusioni gli elementi
di fatto già acquisiti con le garanzie di legge in quella sede e
sottoponendoli al proprio vaglio critico, mediante il confronto con
gli elementi probatori emersi nel giudizio civile (vedi, per tutte:
Cass.
16 maggio 2000, n. 6347; Cass. 7 febbraio 2005, n. 2409; Cass. 19
ottobre 2007, n. 22020; Cass. 27 aprile 2010, n. 10055; Cass. 29
ottobre 2010, n. 22200; Cass. 30 gennaio 2013, n. 2168; Cass. 21
giugno 2013, n. 15673).
La
Corte territoriale, inoltre, ha supportato tale valutazione con
congrua, logica e lineare motivazione.
Pertanto,
la sentenza impugnata sfugge a tutte le censure lamentate, in quanto
anche la mancata disposizione della previa acquisizione degli atti
del processo penale risulta effettuata in
conformità
al consolidato e condiviso indirizzo di questa Corte secondo cui il
giudice che fondi il proprio convincimento sulle risultanze di una
sentenza penale non è tenuto a disporre la previa acquisizione degli
atti del processo penale ed esaminarne il contenuto, qualora, per la
formazione di un razionale convincimento, ritenga sufficienti le
risultanze della sola sentenza (Cass. 13 maggio 1982, n. 2968; Cass.
15 dicembre 2000, n. 15826; Cass. 29 ottobre 2010, n. 22200).
5.-
Tale ultimo argomento vale anche a dimostrare la non accoglibilità
anche del quinto motivo, salvo restando che, in base ad orientamenti
di questa Corte, consolidati e condivisi:
a)
nel rito del lavoro - il cui carattere tipico è il contemperamento
del principio dispositivo con le esigenze della ricerca della verità
materiale - allorquando le risultanze di causa offrano significativi
dati di indagine, il giudice ove reputi insufficienti le prove già
acquisite non può limitarsi a fare meccanica applicazione della
regola formale di giudizio fondata sull'onere della prova, ma ha il
potere-dovere di provvedere d'ufficio agli atti istruttori
sollecitati da tale materiale ed idonei a superare l'incertezza dei
fatti costitutivi dei diritti in contestazione, indipendentemente dal
verificarsi di preclusioni o di decadenze in danno delle parti (tra
le tante: Cass. 5 dicembre 2012, n. 18924);
b)
tuttavia, mentre deve esserci sempre la specifica motivazione
dell'attivazione dei poteri istruttori d'ufficio ex art. 421 c.p.c.,
il mancato esercizio di questi va motivato soltanto in presenza di
circostanze specifiche che rendono necessaria l'integrazione
probatoria (vedi, per tutte: Cass. 24 ottobre 2007, n. 22305);
c)
sicchè il giudizio di opportunità riguardante l'esercizio di poteri
istruttori d'ufficio, rimesso ad un apprezzamento meramente
discrezionale del giudice del merito, da effettuare nell'ambito del
contemperamento del principio dispositivo con quello della ricerca
della verità può essere sottoposto al sindacato di legittimità
soltanto come vizio di motivazione, ai sensi dell'art. 360 c.p.c.,
comma 1, n. 5, qualora la sentenza di merito non adduca un'adeguata
spiegazione per disattendere la richiesta di mezzi istruttori
relativi ad un punto della controversia che, se esaurientemente
istruito, avrebbe potuto condurre ad una diversa decisione (tra le
altre: Cass. 25 maggio 2010, n. 12717).
Da
tali principi si desume che, nella specie, in ordine alla lamentata
mancata acquisizione anche dei verbali di udienza del processo penale
non ricorrono gli estremi per denunciare la presunta violazione
dell'art. 421 c.p.c., oltretutto come violazione di legge e senza il
dovuto rispetto del principio di specificità dei motivi del ricorso
per cassazione.
4
- Conclusioni.
6.-
In sintesi, il ricorso deve essere respinto. Le spese del presente
giudizio di cassazione -liquidate nella misura indicata in
dispositivo - seguono la soccombenza. P.Q.M.
La
Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle
spese del presente giudizio di cassazione, liquidate in Euro 100,00
(cento/00) per esborsi, Euro 3000,00 (tremila/00) per compensi
professionali, oltre accessori come per legge.
Così
deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Lavoro, il 14
gennaio 2014.
Depositato
in Cancelleria il 15 maggio 2014
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