Cassazione
sez lavoro 20163 del 16.11.2012
Ritenuto
in fatto
1.-
Con sentenza del 18 maggio 2005 il Tribunale di Catania, giudice del
lavoro, accogliendo il ricorso di C. P. nei confronti del C. s.p.a.,
dichiarava l’illegittimità del licenziamento intimato
al ricorrente il 7 maggio 1999, fondato sulla contestazione
di abusivo impossessamento di copia di corrispondenza riservata,
intercorsa fra il responsabile di gruppo e il titolare della
dipendenza di Paterno, nonché di documentazione bancaria
riservata, e di utilizzazione di tali copie per
una denunciapenale presentata contro tali suoi colleghi e per
giudizi da lui intrapresi contro la banca. Il Tribunale condannava
altresì la suddetta società alla reintegra del dipendente e
alla corresponsione delle retribuzioni intanto maturate.
2.-
La decisione veniva confermata dalla Corte d’appello di
Catania, che, con la sentenza in epigrafe, respingeva il gravame
proposto dalla banca. In particolare, la Corte di merito rilevava
che: riguardo al possesso dei documenti non era stato
provato alcun abusivo trafugamento, tanto che la stessa datrice di
lavoro, nel corso del giudizio, aveva insistito, piuttosto,
sulla violazione del solo obbligo di fedeltà; era emerso,
peraltro, che all’interno dell’ambiente di lavoro si era creato
un clima di vessazioni, poste in essere nei confronti del P.,
in relazione alla sua attività di sindacalista, dal
responsabile di gruppo, direttore della filiale di Catania, e dal
titolare dell’agenzia di Paterno, i quali, se pure assolti in sede
penale da comportamenti delittuosi a loro imputati, erano
risultati responsabili di specificicomportamenti emulativi a
carico del ricorrente, concordando, fra l’altro, addebiti
inesistenti e formulando ingiuste valutazioni professionali negative,
poi annullate in sede giudiziale; in definitiva,
l’utilizzazione dei documenti aziendali da parte
del dipendente era da considerare pienamente giustificata,
in relazione alla condotta non corretta dei suoi
superiori, alla quale egli aveva reagito per far valere in giudizio i
suoi diritti; in ordine all’entità del risarcimento, contestato
dalla datrice di lavoro in ragione della dedotta percezione di altri
redditi, non era stata data alcuna prova dell’aliunde perceptum e,
al riguardo, le istanze istruttorie proposte in appello erano
inammissibili, in quanto proposte solo in sede di note conclusionali.
3.-
Propone ricorso in cassazione la società, con quattro motivi.
Il dipendente resiste con controricorso, precisato da
successiva memoria.
Considerato
in diritto
1.-
Col primo motivo si denuncia la violazione di
norme processuali (art. 414-416, 115-116 c.p.c.), lamentandosi che il
giudice di merito abbia posto a fondamento della propria
decisione risultanze emerse nel giudizio penale, non
allegate col ricorso introduttivo, senza ammettere la parte
resistente ad alcuna controprova e senza, peraltro, sottoporre le
medesimerisultanze ad alcun vaglio critico e di compatibilità
con i criteri civilistici in materia di prova.
2.-
Il secondo motivo denuncia violazione degli art.
2105-2106 cc. Si lamenta che la decisione impugnata abbia omesso ogni
accertamento in relazione al carattere
della documentazione aziendale e alle modalità con le
quali il dipendente ne era venuto in possesso, nonché in
ordine al tipo di utilizzazione fattane (se in controversia
col datore di lavoro, se mediantedivulgazione esterna o solo
limitata all’ambito giudiziale, se in maniera funzionale al
diritto di difesa).
3.-
Col terzo motivo, denunciando violazione dell’art.
2119 ce. e vizio di motivazione, si lamenta che la Corte d’appellosi
sia limitata ad una acritica adesione alle valutazioni del giudice di
primo grado in ordine alla condotta del dipendente,
senza manifestare alcun processo logico argomentativo
idoneo a dimostrare l’iter di formazione del convincimento, e, fra
l’altro, abbia affermato, in capo ai diretti superiori del
lavoratore, l’esistenza di comportamenti inadempienti,
invece inesistenti ed esclusi in precedenti sedi di giudizio.
4.-
Col quarto motivo, infine, si lamenta che la Corte d’appello abbia
ritenuto inammissibili, ai sensi dell’art. 437 c.p.c, le prove
sull’aliunde perceptum, sebbene si trattasse di prove sopravvenute,
comunque relative ad un’eccezione tempestivamente dedotta.
5.-1
primi tre motivi possono essere esaminati in maniera congiunta,
poiché intimamente connessi.
Vi
si contesta, per diversi profili, la valutazione del
giudice d’appello in ordine al comportamento contestato
aldipendente, anche in relazione alla condotta dei
suoi colleghi; ma le censure si rivelano infondate, oltre che
inammissibili per alcuni aspetti.
5.1.-
La decisione impugnata contiene una ricostruzione analitica delle
modalità, con cui il dipendente era entrato in possesso
della documentazione aziendale, puntualmente riferendosi,
altresì, alle precise, dettagliate, giustificazioni allegate dal P.
nonché alla sostanziale rinuncia datoriale, già in sede di
comunicazione delle ragioni del recesso, alla originaria
contestazione di abusivo impossessamento e, comunque, al mancato
assolvimento, da parte dell’azienda, dell’onere di dimostrare il
carattere illecito della detenzione dei documenti.
5.2.-
Anche in ordine all’utilizzazione dei medesimi documenti la
sentenza si rivela del tutto coerente e congrua, avendo accertato in
modo specifico che il lavoratore aveva posto la documentazione a
fondamento di una denuncia proposta unicamente al fine di
far valere i propri diritti nonché a far emergere, anche per il suo
ruolo di sindacalista attivo all’interno dell’azienda, condotte
inadempienti e antisindacali da parte della datrice di lavoro.
Valutazione, questa, che conduce a conclusioni del tutto conformi ai
più recenti, ormai consolidati, orientamenti della giurisprudenza,
secondo cui non integraviolazione dell’obbligo di fedeltà
la utilizzazione di documenti aziendali
finalizzata all’esercizio di diritti (cfr. Cass. n. 3038 del 2011;
n. 12528 del 2004; n. 22923 del 2004).
5.3.-
Che siffatte valutazioni siano riferite a risultanze del
procedimento penale, scaturito dalle denunce del dipendente, non
inficia il giudizio ora censurato, atteso che la possibilità per il
giudice civile, a seguito dell’entrata in vigore del nuovo codice
di procedura penale, di accertare autonomamente, con pienezza di
cognizione, i fatti dedotti in giudizio e di pervenire a soluzioni e
qualificazioni non vincolate all’esito del processo penale,
non comporta alcuna preclusione per detto giudice nella possibilità
di utilizzare come fonte del proprio convincimento le prove raccolte
in un giudizio penale già definito con sentenza e di fondare il
proprio giudizio su elementi e circostanze già acquisiti con le
garanzie di legge in quella sede, procedendo a tal fine a diretto
esame del contenuto del materiale probatorio ovvero ricavandoli dalla
sentenza penale o, se necessario, dagli atti del relativo processo,
in modo da individuare esattamente i fatti materiali accertati per
poi sottoporli a proprio vaglio critico svincolato dalla
interpretazione e dalla valutazione che ne abbia dato il
giudice penale (cfr. Cass. n. 11483 del 2004). Né può dirsi che ,
nella specie, i fatti emersi nel giudizio penale, e specificamente il
clima di continua vessazione cui il dipendenteera stato
sottoposto, non fossero rilevanti ai fini dell’accoglimento della
domanda giudiziale, basata giustappunto sulla necessità di
difendere la posizione lavorativa, o che i medesimi non siano stati
soggetti ad una autonoma valutazione da parte dei
giudici d’appello, le cui conclusioni, al contrario,
scaturiscono da un apprezzamento analitico
delle risultanze delprocesso penale; né, d’altra
parte, è qui censurabile la rilevanza delle risultanze acquisite
e la ritenuta sufficienza delle medesime, senza necessità di
ulteriori acquisizioni.
5.4.-
Le censure della ricorrente si risolvono in gran parte,
inammissibilmente, in una valutazione dei fatti
contrapposta a quella dei giudici di merito. Il che si riscontra
anche in ordine alla
complessiva valutazione dei comportamenti vessatori
posti in essere da alcuni colleghi del P., oggetto di un accertamento
analitico da parte dei giudici di merito, essendosi in particolare
acclarato – in termini di gravità e di ostinata reiterazione -la
illegittimità di quelle condotte, perpetrate anchemediante la
redazione, ingiustificata, di giudizi professionali negativi, poi
annullati in sede giudiziale, sì che ne emerge,
complessivamente, un quadro di diffusa vessazione, cui il lavoratore
ha inteso reagire
anche mediante la utilizzazione delladocumentazione in
questione.
6.-
Il quarto motivo è proposto in maniera inammissibile. La prova,
ulteriore, relativa ai redditi percepiti aliunde non è stata ammessa
sul presupposto della sua tardività. Si tratta, non della
formulazione dell’eccezione, che si configura come eccezione in
senso lato, rilevabile d’ufficio, ma della prova dei redditi
suddetti, per la cui ammissione in grado d’appello è
necessario un giudizio di indispensabilità (riguardo alla sua
connessione con le risultanze già acquisite nonché alla
sua decisiva rilevanza), tanto più se si alleghino fatti nuovi
sopravvenuti alla stessa costituzione nel giudizio d’appello;
giudizio che è comunque rimesso alla discrezionalità del giudice di
merito, sì che, nella specie, difetta una adeguata censura, in
assenza di specificazioni, anche di ordine temporale, circa la
idoneità della nuova prova a contrastare la prova già acquisita,
ovvero ad integrarla in maniera decisiva, mediante la
dimostrazione di fatti indispensabili ai fini della decisione, che
sarebbe stato impossibile allegare nei termini prescritti.
7.-
In conclusione, il ricorso è respinto. La ricorrente è
condannata alle spese del giudizio, secondo il criterio della
soccombenza, con liquidazione in dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta
il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle
spese del giudizio, liquidate in euro 70,00 per esborsi e in euro
quattromila per compensi professionali, oltre accessori di legge.
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