CORTE DI CASSAZIONE –
Sentenza 25 luglio 2013, n. 32463
Violenza privata –
Corretto adempimento della prestazione lavorativa – Pretesa esercitata con la
coercizione fisica – Illecito penale – Configurabilità
Fatto e diritto
Con sentenza
28.6.2012, la corte di appello di Ancona ,in riforma della sentenza 20.7.09 del
tribunale di Ascoli Piceno, sezione di San Benedetto del Tronto, impugnata dal
P.M., ha condannato, previa concessione delle attenuanti generiche, D.B. R.,
dirigente del settore Servizi Sociali del comune di San Benedetto del Tronto,
alla pena di 4 mesi di reclusione, al risarcimento dei danni, liquidati in €
6.000, alla rifusione delle spese in favore della parte civile, perché ritenuto
colpevole del reato di violenza privata, in danno dell’impiegata del medesimo
ufficio L. M..
Il difensore ha
presentato ricorso per i seguenti motivi, integrati con memoria pervenuta il 15
marzo u.s.:
1. vizio di legge, in
riferimento agli artt. 6 e 46 della CEDU, 111 e 117 co. 1 Cost., 533, 603, 530
cpp: il giudizio di secondo grado si è svolto a seguito dell’impugnazione
proposta dal P.M. limitatamente alla pronuncia di assoluzione, da parte del
tribunale, del D.B. dal reato di violenza privata, mentre non ha esaminato
l’impugnazione della parte civile avverso la pronuncia di assoluzione dai reati
di violenza privata, lesioni e ingiuria, per omessa notifica dell’atto di
appello all’imputato. Secondo il ricorrente, la corte territoriale,
conformemente alla sentenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo del
5.7.2011 (Dan contro Moldavia) e ai principi del giusto processo ex art. 6
CEDU, avrebbe dovuto rinnovare integralmente l’istruttoria dibattimentale, non
potendosi risolvere il giudizio di appello in un mero controllo sul piano documentale.
Nel procedimento dinanzi all’autorità giudiziaria della Moldavia, la corte di
merito aveva accolto l’appello della procura e, aveva ribaltato la sentenza di
assoluzione, senza esaminare i testimoni, ma valutando diversamente le loro
dichiarazioni e ritenendo attendibili quelle accusatorie, senza rilevare
importanti contraddizioni. La corte di appello di Ancona, con motivazione
apparente, non solo ha omesso di riascoltare direttamente i testi, nell’ambito
della corretta dialettica processuale in cui si sostanzia “il giusto processo”
europeo ex art. 6 della CEDU, ma ha travisato radicalmente il contenuto delle
loro deposizioni, rese nel corso del giudizio di primo grado e ha anche
attribuito all’imputato un’inesistente ammissione degli elementi costitutivi
del reato. In tal modo ha disatteso il principio ermeneutico fissato dalla
Corte Europea, con la sentenza che – stante la forza vincolante della norme
della Convenzione Europea – costituisce il diritto vivente a cui devono
conformarsi il legislatore e la magistratura di ogni Stato aderente.
Pertanto costituisce
un vero e proprio errore procedurale, a norma dell’art. 606 co. 1 lett, b) cpp,
la prassi, non sostenuta da alcuna disposizione normativa, di effettuare un
riesame cartolare delle prove testimoniali assunte in primo grado, nel processo
di appello celebrato a seguito di impugnativa del P.M. Ciò si evince dalle
statuizioni dell’ordinanza n. 34472 del 19,4.2012 delle S.U. penali, che
chiariscono l’efficacia extra processuale delle sentenze della CEDU. Quindi gli
effetti della citata sentenza 5.7.2011 devono trovare ingresso nel presente
procedimento, mediante intervento adeguatore del giudice di legittimità,
cassando per evidente errore in procedendo la sentenza impugnata, a norma
dell’art. 606 cpp, violativo dell’art. 6 CEDU.
2. vizio di
motivazione, in relazione alla violazione del diritto di difesa e del
contraddittorio, conseguente all’omessa notifica dell’appello della parte
civile: la mancata conoscenza dei motivi dell’impugnazione ha impedito
all’imputato di esercitare il diritto di impugnazione in via incidentale, per
contrastare le pretese avanzate dalla parte civile e per ottenere la sua
condanna alla rifusione delle spese del giudizio di primo grado, sulle quali il
primo giudice non si è pronunciato. Inoltre, la corte, pur affermando di non
esaminare le argomentazioni contenute nell’atto di impugnazione, in realtà ne
ha tenuto conto, come risulta dalla condanna al risarcimento dei danni in
favore della parte civile.
3. vizio di
motivazione in riferimento all’affermazione di responsabilità per il delitto di
violenza privata: la corte ha fondato la decisione sulle dichiarazioni della
donna, sebbene la giurisprudenza afferma che il convincimento del giudice non
si può formare con il narrato del querelante o del denunciarne, tanto più se è
parte civile e quindi portatrice di interessi economici; inoltre ha richiamato
genericamente le dichiarazioni di tre testimoni senza tener conto delle
contrarie deposizioni di oltre dieci testi oculari, che sono riportate nel
ricorso quanto alle lesioni, è da escludere che sia derivata una malattia, che
abbia negativamente inciso sull’incolumità fisica della L. (come risulta dal
contenuto della documentazione sanitaria, riportato nei motivi
dell’impugnazione). Sulla scorta delle dichiarazioni testimoniali e della
documentazione, il ricorrente formula una valutazione radicalmente negativa
sulla esistenza e sulla consistenza della motivazione della sentenza impugnata;
4. violazione di
legge e vizio di motivazione in riferimento alla negata sussistenza di cause di
giustificazione, quali la legittima difesa, l’esercizio di un diritto,
l’adempimento di un dovere, dello stato di necessità, dell’eccesso colposo: la
parte civile ha tenuto comportamenti penalmente rilevanti, quali l’oltraggio a
pubblico ufficiale, la diffamazione, o quanto meno l’ingiuria, inosservanza di
provvedimenti dell’Autorità, resistenza a pubblico ufficiale, l’interruzzione
di un pubblico servizio. Sotto quest’ultimo profilo, del tutto legittimamente
il dottor D.B. si era rappresentato la necessità, impostagli dalla legge, di
far cessare la permanenza del reato ex art. 340 c.p. La corte di appello
avrebbe dovuto applicare il principio formulato proprio in tema di violenza
privata (sez. V, n. 5423/1989; id. 7.6.1988), secondo cui, ai fini della
sussistenza o meno del reato di violenza privata, la coazione deve ritenersi
giustificata non solo quando ricorra una delle cause di giustificazione
previste dagli artt. 51 e 54, ma anche quando la violenza o la minaccia siano
in concreto adoperate per impedire l’esecuzione o la permanenza del reato. Il
delitto viene meno se risulta che l’agente aveva il diritto di imporre con
violenza o minaccia una determinata condotta positiva o negativa. Vi è rilevare
che all’imputato, pubblico ufficiale, datore di lavoro della L., dirigente
pubblico di ruolo spettavano i doveri di cui all’art. 107 d,lgs 267/2000, ai
fini della cura del corretto funzionamento degli uffici e servizi assegnati
alla propria competenza. Tenuto conto delle risultanze processuali, in
definitiva, l’azione di sospingimento contenitivo, di certo non aggressivo
della parte offesa, posta in essere dal dirigente (le cui modalità
assolutamente non aggressive sono state confermate dal passaggio in giudicato
del capo della sentenza che ha riconosciuto come inesistenti le lesioni
personali per 98 giorni di malattia lamentati dalla donna) era finalizzata, in
ragione della funzione istituzionale di cura e garanzia, conferitagli dal
citato art. 107 a far cessare i numerosi reati che lei stava consumando.
5. violazione di
legge in riferimento all’art. 157 cp., per mancata declaratoria di estinzione
del reato per prescrizione e dell’art. 578 cpp, per il mancato riconoscimento
dell’insussistenza di un danno ricollegabile alla condotta dell’imputato,
nonché per ingiusta e immotivata quantificazione del danno medesimo.
Il ricorso è
manifestamente infondato.
La doglianza sulla
violazione del principio ermeneutico, fissato dalla Corte Europea nella citata
sentenza del 5.7.2011 (Dan contro Moldavia) è formulata sull’errato presupposto
che la corte di appello di Ancona abbia compiuto – attraverso l’omissione del
nuovo esame dei testi e attraverso un esame cartolare delle loro deposizioni –
una diversa valutazione delle prove dichiarative, travisandone il contenuto e
attribuendo all’imputato un’inesistente ammissione del fatto contestatogli. Di
qui una diverga ricostruzione del fatto, in violazione della corretta
dialettica processuale, in cui si sostanzia il “giusto processo” ex art. 6
della CEDU.
Tale assunto critico
è del tutto privo di fondamento. Al di là dell’assenza di riferimento a una
richiesta, da parte dell’interessato, di riapertura dell’Istruttoria
dibattimentale, va rilevato che dagli atti emerge che la corte di appello di
Ancona, lasciando sostanzialmente invariata la valutazione delle dichiarazioni
testimoniali e prendendo atto delle innegabili ammissioni del D.B., ha
conseguentemente lasciata inalterata la ricostruzione dei fatti compiuta dal
primo giudice . E’ risultato quindi confermato che:
a) la condotta
incriminata “è stata riconosciuta dallo stesso imputato, che sin dalla prima
udienza, in sede di dichiarazioni spontanee, ha ammesso che, dopo aver discusso
all’interno del suo ufficio, la L. sarebbe uscita sbattendo la porta e
nonostante lui la seguisse in corridoio invitandola a rientrare per concludere
il discorso iniziato, la donna continuava a camminare lungo il corridoio e
cominciava a chiamare provocatoriamente aiuto, urlando di non menarla nonostante
tra i due vi fossero diversi metri di distanza” (sent. Trib. pag .10);
b) che la L., giunta
dinanzi alla propria stanza veniva raggiunta dall’imputato che, “preso atto che
la stessa non desisteva dal suo comportamento, la spingeva sino alla sua
scrivania imponendole di sedersi … la invitava verbalmente ad entrare nella
propria stanza e, visto il suo rifiuto, la sospingeva sino alla sua scrivania
facendola sedere sulla sua sedia” (sent. trib. pagine 10e 11). Questa identica
premessa storica è stata però diversamente valutata dai giudici di merito:
secondo il tribunale “il rifiuto della L. di rientrare nella propria stanza e
sedersi alla sua scrivania per riprendere il lavoro assume il carattere
dell’illegittimità per cui l’azione posta in essere successivamente
dall’imputato deve considerarsi scriminata ai sensi dell’art. 51, integrando
l’esercizio di un diritto o l’adempimento di un dovere, Né può sostenersi che
il Dirigente di fronte alle offese rivoltegli dalla dipendente e alla sua
plateale insubordinazione agli ordini impartiti avrebbe dovuto limitarsi a
promuovere nei suoi confronti un procedimento disciplinare, infatti il mero
ricorso ad una segnalazione scritta non era in alcun modo in grado di porre
fine al comportamento della L. che, nell’immediato, con il suo perdurare,
creava una situazione di profondo disagio sia al Dirigente che vedeva
gravemente delegittimata la propria funzione, sia gli altri dipendenti che,
accorsi in corridoio, assistevano alla scena, sia infine agli utenti presenti
essendosi i fatti svolti in orario di apertura al pubblico dell’Ufficio”(pag.
12). La corte di merito, prende atto che il giudice di primo grado aveva
ricostruito un indubbio atto di costrizione fisica del D.B. nei confronti della
donna e che ne aveva “escluso l’antigiuridicità penale ricollegando la violenza
adoperata all’attuazione di una pretesa legittima, quella dell’amministrazione
al corretto adempimento della prestazione lavorativa di L. M.», e di un
comportamento doveroso da parte della dipendente”.
Questa pretesa al
corretto adempimento della prestazione lavorativa,esercitabile con la
coercizione fisica nei confronti di un lavoratore subordinato, è stata ritenuta
dalla corte di appello estranea al nostro ordinamento giuridico. “I diritti del
datore di lavoro alle prestazioni consistenti in un facere non sono coercibili
sotto alcun profilo: né sul piano naturalistico, trattandosi di comportamenti
personali volontari, né sul piano del diritto positivo, che prevede
l’esecuzione coattiva degli obblighi di fare solo per comportamenti
surrogabili, che non discendano da intuitus personae, mentre la tutela verso
gli inadempimenti di obblighi incoercibili resta essenzialmente risarcitoria”.
Secondo il giudice di appello, al di là dei danni fisici, la condotta di violenta
imposizione di un facere al lavoratore subordinato, risulta gravemente lesiva
della dignità personale e della libertà di autodeterminazione. Il nostro
ordinamento prevede come unici rimedi “i normali e leciti strumenti
amministrativi disciplinari di cui può e deve disporre il dirigente”.
Correttamente, in conformità ai criteri interpretativi dell’esimente ex art. 51
c.p., la corte ha negato, sia pure per implicito, alla condotta dell’imputato
il requisito della proporzionalità, immanente a tutte le cause di
giustificazione. Secondo un condivisibile orientamento giurisprudenziale, la
coazione, anche quando sia usata per impedire la commissione di un reato
(ipotesi non configurata a carico della L.) non può prescindere da un criterio
di proporzionalità tra il mezzo adoperato e il fatto trasgressivo che si
intendeva evitare, “proporzionalità certamente necessaria, se si vuole che
l’asserito esercizio di un diritto non si tramuti nell’ingiustificata lesione
del bene altrui”(sez. 5, n. 5423 del 7.6.1988, Bajona).
La conclusione a cui
è giunta la corte di merito è quindi non solo improntata a una fedele
conformità alle risultanze processuali e a una razionale esposizione delle
ragioni che la giustificano, ma è anche in perfetta armonia con intangibili
principi costituzionali in tema di diritti fondamentali della persona e del
principio dì uguaglianza: la diversità di funzioni tra imputato e persona
offesa, scandita nella sentenza di primo grado (“deve ricordarsi che il D.B.
non era collega della persona offesa bensì il suo Dirigente”) non può tradursi
in una diversità di posizione sul piano della dignità personale all’interno dei
rapporti umani e professionali.
Quanto alla doglianza
relativa alla violazione del diritto di difesa e del contraddittorio sul piano
delle statuizioni civili e del pagamento delle spese processuali, va rilevato
che nessuna censura è formulabile nei confronti della presa d’atto del giudice
di appello, del mancato instaurarsi del rapporto processuale tra le parti,
nell’ambito del giudizio civile, a seguito della omessa notifica all’imputato
dell’appello della parte civile.
Nessuna censura è
ugualmente formulabile in ordine alle statuizioni civili relative alla condanna
del D.B. al risarcimento dei danni e al rimborso delle spese sostenute dalla parte
civile Secondo un consolidato e condivisibile orientamento interpretativo il
giudice di appello, che su gravame del solo pubblico ministero, condanni
l’imputato assolto nel giudizio di primo grado, deve provvedere anche sulla
domanda della parte civile che non abbia impugnato la decisione assolutoria( S.
U. n. 30327 del 10.7.02, rv 222001, conf. sez. 5 ,n. 16961 del 12.2.2010,rv
246876).
La determinazione
della somma liquidata dalla corte di merito, a titolo di risarcimento del danno
morale e biologico, è insuscettibile di censura, in virtù della sua razionale
adeguatezza all’entità della sofferenza causata alla L. dalla violenta
aggressione. Va anche rilevata la sua piena conformità alla forma equitativa:
secondo un consolidato e condivisibile orientamento giurisprudenziale, unica
forma possibile di liquidazione di danni privi di caratteristiche patrimoniali
è quella equitativa, in cui la dazione di somma di denaro non è reintegratrice
di una diminuzione patrimoniale, ma compensativa di un pregiudizio non
economico. E’ quindi logicamente escluso che il giudice abbia l’obbligo – in
assenza di parametri normativi di commutazione – di scandire gli specifici
elementi valutativi da lui considerati nella quantificazione della entità del
danno e della correlata dimensione del ristoro pecuniario, a fronte di
accertati comportamenti, che inequivocabilmente sono da ritenere, secondo la
comune esperienza e secondo consolidati criteri della civile convivenza- fonte
dì sofferenza per chi ne sia stato investito. Quanto alla richiesta di
declaratoria di estinzione del reato per prescrizione, il preciso calcolo del
tempo trascorso dalla data della sua consumazione conduce a ritenere che il
termine di 7 anni e 6 mesi non è ancora maturato.
Il ricorso va quindi
dichiarato inammissibile con condanna del ricorrente al pagamento delle spese
processuali e al pagamento della somma di € 1.000 in favore della Cassa della
Ammende, nonché alla rifusione delle spese sostenute dalla parte civile, che
liquida in complessivi € 2.000,00, oltre accessori secondo legge.
P.Q.M.
Dichiara
inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese
processuali e della somma di € 1.000,00 in favore della Cassa delle Ammende,
nonché alla rifusione delle spese sostenute dalla parte civile, che liquida in
complessivi € 2,000,00, oltre accessori secondo legge.
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