SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
ORDINANZA DEL 21 MAGGIO 2014, N. 11204
ha
pronunciato la seguente:
ordinanza
sul
ricorso 19582/2011 proposto da:
G.D.
(OMISSIS) titolare dell’omonima Impresa Costruzioni, elettivamente
domiciliato in ROMA, VIA CIVITAVECCHIA 7, presso lo studio
dell’avvocato FRANCESCO MUSOLINO, rappresentato e difeso
dall’avvocato GIUSEPPE MAZZETTI, giusta procura a margine del
ricorso;
-
ricorrente -
contro
C.M.,
C.G., N.F., I. C., Q.R., S.G., B.S., N.P.;
-
intimati -
avverso
la sentenza n. 282/2011 della CORTE D’APPELLO di REGGIO CALABRIA
dell’11/02/2011, depositata l’1/03/2011;
udita
la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del
04/03/2014 dal Consigliere Relatore Dott. CATERINA MAROTTA.
Svolgimento
del processo – Motivi della decisione
1
– Considerato che è stata depositata relazione del seguente
contenuto:
Con
sentenza n. 282/2011, depositata in data 1 marzo 2011, la Corte di
appello di Reggio Calabria, pronunciando sull’impugnazione proposta
da G.D., confermava la decisione n. 2646/2005 del Tribunale di Tempo
Pausania che, previa riunione dei ricorsi proposti separatamente da
C.D., C.G., N.F., I.C., Q.R., S. G., B.S. e N.P., operai che avevano
lavorato alle dipendenze del G., ed emissione di ordinanza ex art.
423 c.p.c., per il pagamento di somme a titolo di t.f.r., aveva
riconosciuto, sul presupposto dell’esistenza di un unico rapporto
di lavoro a tempo indeterminato in luogo di una serie di contratti a
termine succedutisi nel tempo, il diritto dei ricorrenti alle
retribuzioni relative ai periodi di fittizia interruzione dei
rapporti (con esclusione delle indennità per lavoro festivo e per
sospensione dei lavori) e condannato il convenuto al pagamento della
complessiva somma di Euro 178.283,72.
Riteneva
la Corte territoriale che, conformemente a quanto considerato dal
primo giudice, l’istruttoria svolta – ed in particolare l’esito
del confronto tra le dichiarazione dei lavoratori e quelle del teste
Ci.Gi. – avesse dimostrato la fondatezza delle allegazioni attoree.
Avverso
tale sentenza G.D. ricorre per cassazione con due motivi.
I
lavoratori intimati sono rimasti tali.
Con
il primo motivo il ricorrente denuncia: “Violazione e falsa
applicazione dell’art. 246 c.p.c. – nullità delle testimonianze
rese nel giudizio di primo grado”. Si duole del fatto che la Corte
territoriale abbia ritenuto esente da censure la decisione di primo
grado laddove ha confermato la legittimità dell’escussione
testimoniale resa dai lavoratori (parti nel processo riunito) sul cui
esito ha prevalentemente fondato l’assunto decisorio.
Con
il secondo motivo il ricorrente denuncia: “Insufficiente e
contraddittoria motivazione circa un punto decisivo per la
controversia – insussistenza della qualificazione giuridica
attribuita al rapporto di lavoro prestato dagli originali
ricorrenti”. Lamenta che la Corte territoriale, sulla base della
presunta concordanza delle audizioni rese da testimoni incompatibili,
abbia escluso la decorrenza del termine prescrizionale con riguardo
ai singoli rapporti a termine.
Il
primo motivo è manifestamente infondato.
Questa
Corte, anche avuto riguardo al carattere di norme di stretta
interpretazione delle disposizioni sulla incapacità a testimoniare,
che introducono una deroga al generale dovere di testimonianza (Cass.
9 febbraio 2005, n. 2621 e Cass. 16 aprile 2009, n. 9015) ha più
volte affermato il principio secondo cui : “L’interesse che
determina l’incapacità a testimoniare, ai sensi dell’art. 246
c.p.c., è solo quello giuridico, personale, concreto ed attuale, che
comporta o una legittimazione principale a proporre l’azione ovvero
una legittimazione secondaria ad intervenire in un giudizio già
proposto da altri cointeressati. Tale interesse non si identifica con
l’interesse di mero fatto, che un testimone può avere a che venga
decisa in un certo modo la controversia in cui esso sia stato
chiamato a deporre, pendente fra altre parti, ma identica a quella
vertente tra lui ed un altro soggetto ed anche se quest’ultimo sia,
a sua volta, parte del giudizio in cui la deposizione deve essere
resa.
Nè
l’eventuale riunione delle cause connesse (per identità di
questioni) può far insorgere l’incapacità delle rispettive parti
a rendersi reciproca testimonianza, potendo tale situazione soltanto
incidere sull’attendibilità delle relative deposizioni” – cfr.
in tal senso ex plurimis Cass. 12 maggio 2005, n. 11034; id. 15
giugno 2006, n. 13783; 16 giugno 2003, n. 9650 -.
E,
comunque, la capacità a testimoniare (che, dunque, permane
nonostante la disposta riunione, che lascia immutata l’autonomia
dei singoli giudizi e non pregiudica la sorte delle singole azioni)
differisce dalla valutazione sull’attendibilità del teste,
operando le stesse su piani diversi, atteso che l’una, ai sensi
dell’art. 246 c.p.c., dipende, come detto, dalla presenza in un
interesse giuridico (non di mero fatto) che potrebbe legittimare la
partecipazione del teste al giudizio, mentre la seconda afferisce
alla veridicità della deposizione che il giudice deve
discrezionalmente valutare alla stregua di elementi di natura
oggettiva (la precisione e completezza della dichiarazione, le
possibili contraddizioni, ecc.) e di carattere soggettivo (la
credibilità della dichiarazione in relazione alle qualità
personali, ai rapporti con le parti ed anche all’eventuale
interesse ad un determinato esito della lite), con la precisazione
che anche uno solo degli elementi di carattere soggettivo, se
ritenuto di particolare rilevanza, può essere sufficiente a motivare
una valutazione di inattendibilità (Cass. 30 marzo 2010, n. 7763).
Il che significa che la valutazione va fatta, caso per caso, in
concreto.
Orbene
la sentenza impugnata non si è discostata dai suddetti principi
(richiamando il precedente di questa Corte rappresentato dalla
sentenza del Cass. 9 maggio 2007, n. 10545, conforme all’orientamento
sopra ricordato).
In
particolare, l’eventuale interesse riflesso dei testi alla
decisione, ha indotto la Corte reggina a soffermarsi specificamente
sull’attendibilità delle deposizioni stesse, desunta – come
rimarcato dal giudice di primo grado – dal costante e conforme
contenuto delle medesime, dalla circostanza che nei periodi di
intervallo tra un rapporto a tempo determinato e l’altro, il G.
trattenesse presso di sè il tesserino dell’ufficio di collocamento
dei lavoratori ed erogasse una sia pur minima retribuzione, dal
preciso riscontro di tali deposizioni con le dichiarazioni rese dal
teste Giuseppe Ci. (che non aveva in corso cause contro il G. ed era
in possesso di una sufficiente “cognizione di causa” per aver
lavorato alle dipendenze dell’impresa per un lungo periodo).
Il
secondo motivo resta assorbito, essendo la ritenuta unicità del
rapporto (posta a base della inoperatività del termine
prescrizionale autonomo per ciascun rapporto a termine) dipesa dalla
valutazione degli esiti istruttori che, per quanto sopra evidenziato,
deve restare ferma.
Sulla
base delle considerazioni che precedono si propone il rigetto del
ricorso, con ordinanza, ai sensi dell’art. 375 c.p.c., n. 5″.
2
– Ritiene questa Corte che le considerazioni svolte dal relatore
siano del tutto condivisibili, siccome coerenti alla consolidata
giurisprudenza di legittimità in materia.
Ricorre
con ogni evidenza il presupposto dell’art. 375 c.p.c., n. 5, per la
definizione camerale del processo.
3
– Conseguentemente, il ricorso va rigettato.
4
– Infine, nulla va disposto per le spese del presente giudizio di
legittimità non avendo i lavoratori svolto attività difensiva.
P.Q.M.
P.Q.M.
La
Corte rigetta il ricorso; nulla per le spese.
Così
deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 4 marzo 2014.
Depositato
in Cancelleria il 21 maggio 2014
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