CONSIGLIO
DI STATO, SEZ. VI - SENTENZA 20 novembre 2013, n.5515 -
SENTENZA
sul
ricorso numero di registro generale 6186 del 2013, proposto
dall’Universita' Cattolica del Sacro Cuore, rappresentata e difesa
dagli avvocati Maria Alessandra Bazzani e Diego Vaiano, con domicilio
eletto presso il secondo in Roma, Lungotevere Marzio N. 3;
contro
Salvatore
Laganà;
per
la riforma della sentenza del t.a.r. lombardia – milano, sezione
iv, n. 01904/2013, resa tra le parti, concernente diniego di accesso
ai documenti sull'esclusione da un corso di dottorato di ricerca -
mcp
Visti
il ricorso in appello e i relativi allegati;
Viste
le memorie difensive;
Visti
tutti gli atti della causa;
Relatore
nella camera di consiglio del giorno 10 settembre 2013 il Cons.
Gabriella De Michele e udito per la parte appellante l’avv.
Bazzani;
Ritenuto
e considerato in fatto e diritto quanto segue:
FATTO
e DIRITTO
Attraverso
l’atto di appello in esame (n. 6186/13, notificato il 2.8.2013),
l’Università Cattolica del sacro Cuore di Milano contesta la
sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia,
sez. IV, n. 1904 del 18.7.2013 (che non risulta notificata), con la
quale è stato in parte accolto il ricorso proposto dal dott.
Salvatore Laganà, per l’accesso ai documenti richiesti alla citata
Università con istanza del 14.2.2013, a norma degli articoli 22 e
seguenti della legge n. 241/1990. In particolare il citato dott.
Laganà – escluso con decreto rettorale n. 9362 in data 11.10.2011
dal corso di dottorato di ricerca in “Diritto commerciale interno e
internazionale” e già ammesso all’accesso di numerosi documenti,
oggetto di cinque istanze di accesso antecedenti a quella di cui si
discute – chiedeva ulteriormente alla data sopra indicata
l’ostensione “del decreto rettorale n. 9737 del 15.3.2012”,
nonché di “tutti gli atti delle procedure di valutazione di tutti
i dottorandi di ricerca, il cui relativo titolo di dottore di ricerca
è stato o non è stato rilasciato dal Rettore dell’Università
Cattolica del Sacro Cuore dal giorno 1 gennaio 2005 ad oggi”.
Con
nota n. prot. DS/13/LC 277 del 5.13.2013 l’Amministrazione
universitaria inviava copia del citato decreto rettorale n.
9737/2012, ma dichiarava inammissibile l’ulteriore richiesta, “in
quanto…preordinata al controllo generalizzato dell’operato della
scrivente”.
Con
la sentenza appellata – respinta un’eccezione preliminare di
tardività e dichiarato il difetto di legittimazione passiva del
Rettore e del direttore di sede come persone fisiche – le ragioni
del ricorrente erano ritenute fondate, limitatamente alla
documentazione riferita ai dottorati di ricerca nelle materie
giuridiche, svoltisi a partire dall’anno 2009 (in coincidenza col
decreto rettorale n. 6164/2009, approvativo del regolamento dei corsi
di dottorato di cui trattasi).
Nella
ricordata pronuncia si sottolineava come l’interesse perseguito
riguardasse il rilascio del titolo di dottore di ricerca anche nei
casi in cui – come avvenuto per il ricorrente – i Commissari non
avessero espresso alcun voto, positivo o negativo, a sostegno della
proposta di rilascio del titolo.
A
tale riguardo, veniva segnalata “un’evoluzione sempre più a
favore della trasparenza, pur con contemperamenti”, indirizzati a
“proteggere il più possibile la divulgazione di dati personali”:
quanto sopra, in attuazione delle norme nazionali e comunitarie che –
al fine di combattere la corruzione – hanno imposto la più ampia
divulgazione delle informazioni, relative ai procedimenti
amministrativi, fino all’approvazione del d.lgs. 14.3.2013, n. 33,
che riordina in un “corpus” unitario la disciplina riguardante
gli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione delle
informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni ed introduce il
cosiddetto diritto di accesso civico, in caso di omessa pubblicazione
di dati, di cui sia resa obbligatoria la divulgazione.
In
considerazione, tuttavia, della “notevole mole di documentazione
richiesta dall’interessato”, l’accesso era limitato al periodo
successivo all’anno 2009 (e non 2005 come richiesto), tenuto conto
della data di approvazione del regolamento dei corsi di dottorato
presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore; veniva respinta,
invece, la domanda di risarcimento del danno in via equitativa, non
essendo stato provato dall’interessato il fondamento del proprio
diritto.
In
sede di appello, la citata Università contesta l’applicabilità –
nel procedimento speciale di cui agli articoli 22 e seguenti della
legge n. 241/1990 – della successiva legislazione in materia di
trasparenza, sia per la solo successiva emanazione del citato d.lgs.
n. 33 del 14.3.2013, sia comunque per la sussistenza di piani
separati di operatività e di rito degli istituti in questione.
Il
dott. Laganà non si è costituito in giudizio.
Premesso
quanto sopra, il Collegio ritiene che l’appello sia meritevole di
accoglimento.
Al
riguardo sembra opportuno sottolineare, in primo luogo, che le nuove
disposizioni, dettate con d.lgs. 14.3.2013, n. 33 in materia di
pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle
pubbliche amministrazioni disciplinano situazioni, non ampliative né
sovrapponibili a quelle che consentono l’accesso ai documenti
amministrativi, ai sensi degli articoli 22 e seguenti della legge
7.8.1990, n. 241, come successivamente modificata ed integrata.
Col
citato d.lgs. n. 33/2013, infatti, si intende procedere al riordino
della disciplina, intesa ad assicurare a tutti i cittadini la più
ampia accessibilità alle informazioni, concernenti l’organizzazione
e l’attività delle pubbliche amministrazioni, al fine di attuare
“il principio democratico e i principi costituzionali di
eguaglianza, imparzialità, buon andamento, responsabilità,
efficacia ed efficienza nell’utilizzo di risorse pubbliche”,
quale integrazione del diritto “ad una buona amministrazione”,
nonché per la “realizzazione di un’amministrazione aperta, al
servizio del cittadino”. Detta normativa – avente finalità
dichiarate di contrasto della corruzione e della cattiva
amministrazione – intende anche attuare la funzione di
“coordinamento informativo, statistico e informatico dei dati
dell’amministrazione statale, regionale e locale, di cui all’art.
117, secondo comma, lettera r) della Costituzione”: quanto sopra,
tramite pubblicazione obbligatoria di una serie di documenti
(specificati nei capi II, III, IV e V del medesimo d.lgs. e
concernenti l’organizzazione, nonchè diversi specifici campi di
attività delle predette amministrazioni) nei siti istituzionali
delle medesime, con diritto di chiunque di accedere a tali siti
“direttamente ed immediatamente, senza autenticazione ed
identificazione”; solo in caso di omessa pubblicazione può essere
esercitato, ai sensi dell’art. 5 del citato d.lgs., il cosiddetto
“accesso civico”, consistente in una richiesta – che non deve
essere motivata – di effettuare tale adempimento, con possibilità,
in caso di conclusiva inadempienza all’obbligo in questione, di
ricorrere al giudice amministrativo, secondo le disposizioni
contenute nel relativo codice sul processo (d.lgs. 2.7.2010, n. 104).
L’accesso
ai documenti amministrativi, disciplinato dagli articoli 22 e
seguenti della legge 7.8.1990, n. 241 è riferito, invece, al
“diritto degli interessati di prendere visione ed estrarre copia di
documenti amministrativi”, intendendosi per “interessati….tutti
i soggetti….che abbiano un interesse diretto, concreto ed attuale,
corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata
al documento al quale è chiesto l’accesso”; in funzione di tale
interesse la domanda di accesso deve essere opportunamente motivata.
Benchè
sommarie, le indicazioni sopra fornite appaiono sufficienti per
evidenziare la diversificazione di finalità e di disciplina
dell’accesso agli atti, rispetto al cosiddetto accesso civico, pur
nella comune ispirazione al principio di trasparenza, che si vuole
affermare con sempre maggiore ampiezza nell’ambito
dell’amministrazione pubblica.
Per
quanto riguarda la documentazione richiesta nel caso di specie –
concernente “tutti gli atti delle procedure di valutazione di tutti
i dottorandi di ricerca…il cui relativo titolo è stato o non è
stato rilasciato dal giorno 1 gennaio 2005…” – deve ritenersi
evidente che la procedura attivata sia da ricondurre in via esclusiva
alla citata legge n. 241/1990, come del resto formalmente enunciato
nell’istanza: una così ampia diffusione degli atti interni di
qualsiasi procedura valutativa non appare imposta, infatti, dal
ricordato d.lgs. n. 33/2013, né – se pure lo fosse – potrebbe
intendersi riferita anche a procedure antecedenti all’emanazione
del medesimo d.lgs., entrato in vigore il 20 aprile 2013.
Per
esaminare l’istanza in questione, pertanto, deve farsi riferimento
all’art. 24, comma 7, della legge n. 241/1991, in base al quale
“deve…essere garantito ai richiedenti l’accesso ai documenti
amministrativi, la cui conoscenza sia necessaria per curare o per
difendere i propri interessi giuridici”; nel caso di “documenti
contenenti dati sensibili e giudiziari”, però, la medesima norma
precisa che l’accesso è consentito solo “nei limiti in cui sia
strettamente indispensabile” (in esito ad un sostanziale
bilanciamento di interessi, operato già a livello legislativo). Il
tenore letterale e la ratio della disposizione legislativa in
questione impongono un’attenta valutazione – da effettuare caso
per caso – circa la stretta funzionalità dell’accesso alla
salvaguardia di posizioni soggettive protette, che si assumano lese,
con ulteriore salvaguardia, attraverso i limiti così imposti, degli
altri interessi coinvolti, talvolta rispondenti a principi di pari
rango costituzionale rispetto al diritto di difesa. In tale ottica
solo una lettura rigorosa, che escluda la prevalenza acritica di
esigenze difensive anche genericamente enunciate, in effetti, appare
idonea a sottrarre la medesima norma a dubbi di costituzionalità,
per irragionevole sacrificio di interessi protetti di possibile
rilevanza costituzionale e comunitaria (cfr. al riguardo, per il
principio, Cons. St.,
Ad. Plen. 4.2.1997, n. 5; Cons. St., sez. VI, 24.3.1998, n. 498,
26.1.1999, n. 59, 20.4.2006, n. 2223; 27.10.2006, n. 6440,
13.12.2006, n. 7389; Cons. St.,
sez. V, 21.10.1998, n. 1529).
Se
l’accesso ai documenti amministrativi, inoltre, costituisce
“principio generale dell’attività amministrativa, al fine di
favorire la partecipazione e di assicurarne l’imparzialità e la
trasparenza”, è anche vero che si richiede per l’accesso un
“interesse diretto, concreto ed attuale, corrispondente ad una
situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale
è chiesto l’accesso” e che “non sono ammissibili istanze di
accesso, preordinate ad un controllo generalizzato dell’operato
delle pubbliche amministrazioni”, essendo tale controllo estraneo
alle finalità, perseguite attraverso l’istituto di cui trattasi
(artt. 22, commi 3, 1 lettera b e 24, comma 3 L. n. 241/90 cit.).
Il
cospicuo numero delle istanze di accesso presentate dall’attuale
appellante, prima dell’ultima ora in discussione, appare già, di
per sé, non conforme alle finalità della normativa in esame, che
consente di conoscere tutta la documentazione, che in base ad un
apprezzamento preventivo di probabilità l’interessato può,
ragionevolmente, ritenere utile per le proprie esigenze di
accertamento di fatti che lo riguardano e delle relative, possibili
ragioni difensive; può anche riconoscersi che, dalla conoscenza di
alcuni atti, possa dimostratamente scaturire l’esigenza di
ulteriori acquisizioni documentali; non può invece ritenersi
giustificato un ricorso frazionato e protratto nel tempo del diritto
di accesso, senza che risultino plausibili ragioni per una omessa
acquisizione originaria di tutta la documentazione ritenuta utile e
con sostanziale trasformazione dell’accesso in indagine
sull’attività amministrativa, alla mera ricerca di nuovi elementi
utilizzabili.
Premesso
quanto sopra, il Collegio ritiene che le ragioni difensive
dell’Università appellante siano nella fattispecie condivisibili.
Come già in altre decisioni rilevato infatti (cfr. in particolare,
per il principio, Cons. St., sez. VI, n. 1842 del 22.4.2008), le
disposizioni in materia di diritto di accesso mirano a coniugare la
ratio dell’istituto, quale fattore di trasparenza e garanzia di
imparzialità dell’Amministrazione – nei termini di cui all’art.
22 della citata legge n. 241/90 – con il bilanciamento da
effettuare rispetto ad interessi contrapposti, inerenti non solo alla
riservatezza di altri soggetti coinvolti, ma anche alle esigenze di
buon andamento dell’amministrazione, che appare da salvaguardare in
presenza di richieste pretestuose e defatiganti, ovvero introduttive
di forme atipiche di controllo.
E’
vero che, in via generale, le necessità difensive – riconducibili
ai principi tutelati dall’art. 24 della Costituzione – sono
ritenute prioritarie ed in tal senso il dettato normativo richiede
l’accesso sia garantito “comunque” a chi debba acquisire la
conoscenza di determinati atti per la cura dei propri interessi
giuridicamente protetti (art. 20, comma 7, L. n. 241/90 Cit.); la
medesima norma tuttavia – come successivamente modificata tra il
2001 e il 2005 (art. 22 L. n. 45/01, art. 176, c. 1, D.Lgs. n. 196/03
e art. 16 L. n. 15/05) – specifica con molta chiarezza come non
bastino esigenze di difesa genericamente enunciate per garantire
l’accesso, dovendo quest’ultimo corrispondere ad una effettiva
necessità di tutela di interessi che si assumano lesi ed
ammettendosi solo nei limiti in cui sia “strettamente
indispensabile” la conoscenza di documenti, contenenti “dati
sensibili e giudiziari”.
Nella
situazione in esame le esigenze difensive del dott. Laganà appaiono
più che generiche, in quanto dalla documentazione in atti emerge un
contrasto fra lo stesso e gli organi universitari circa l’avvenuta
valutazione, o meno, della tesi presentata al termine dei corsi di
dottorato di ricerca e l’obbligo, o meno, di rilasciare il titolo
relativo, non richiedente “valutazione o punteggio”, o quanto
meno non richiedendo motivazione il voto positivo. Fermo restando,
quindi, che il Collegio non è chiamato a valutare le ragioni addotte
dal medesimo dott. Laganà in ordine a quanto sopra, appare piuttosto
evidente che dette ragioni siano riconducibili ad una specifica
vicenda personale ed alla regolamentazione vigente per i corsi di
dottorato di ricerca: regolamentazione che, per quanto qui interessa,
risulta dettata con d.m. 30.4.1999, n. 224 e con decreto rettorale n.
6164 in data 8.7.2009, prescrittivo all’art. 11 di un “esame
finale”, consistente nella “valutazione dei risultati scientifici
conseguiti, del grado di approfondimento delle metodologie per la
ricerca nei rispettivi settori e della formazione scientifica
raggiunta dai candidati nel corso degli studi di dottorato”. Nello
stesso regolamento è anche specificato come detta valutazione debba
avvenire “sulla base della relazione del Collegio dei docenti sulla
complessiva attività svolta dal candidato, della tesi finale scritta
e della sua discussione”. Le modalità procedurali, attraverso cui
l’Università può addivenire al rilascio del titolo di dottore di
ricerca sono dunque, evidentemente, vincolate, mentre ampiamente
discrezionale non può non essere il contenuto della valutazione di
merito da esprimere. Non si vede, pertanto, come la comparazione con
precedenti procedure potrebbe giovare alla difesa dell’attuale
appellante, non risultando prospettabile il vizio di eccesso di
potere per disparità di trattamento in rapporto ad atti vincolati e
non essendo censurabili nel merito gli apprezzamenti discrezionali
delle commissioni giudicatrici.
E’
vero che lo stesso citato d.m. n. 224/1999 assicura, all’art. 6,
comma 10, “la pubblicità degli atti delle procedure di
valutazione, ivi compresi i giudizi sui singoli candidati”, ma tale
pubblicità non può che intendersi, ragionevolmente, prevista nel
modo più ampio nell’ambito di ogni singolo corso di dottorato, con
ulteriori possibilità di accesso per concrete esigenze che venissero
manifestate anche in via successiva, ma in termini compatibili con la
normativa vigente, non potendosi non ravvisare – in richieste non
adeguatamente motivate e implicanti sia ricerche che produzioni
documentali ponderose – proprio quella forma di atipico controllo
sull’operato dell’amministrazione (e/o di organi tecnici alla
stessa riconducibili) non consentita nel contesto normativo di
riferimento.
Per
le ragioni esposte, in conclusione, il Collegio ritiene che l’appello
debba essere accolto, con le conseguenze precisate in dispositivo;
quanto alle spese giudiziali, tuttavia, il Collegio ritiene di
poterne evitare l’addebito alla parte appellata, non costituita in
giudizio, tenuto conto delle peculiarità della vicenda controversa.
P.Q.M.
Il
Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta),
definitivamente pronunciando, accoglie l’appello e per l’effetto,
in riforma della sentenza appellata, respinge il ricorso proposto in
primo grado di giudizio avverso l’istanza di accesso del 12
febbraio 2013, per la parte non accolta dall’Amministrazione.
Spese
giudiziali non addebitate.
Ordina
che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
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