CORTE
DI CASSAZIONE – Sentenza 07 novembre 2013, n. 25072
Lavoro
- Licenziamento per superamento del periodo di comporto - Assenze per
malattia
professionale
- Riconducibilità al datore
Svolgimento
del processo
Con
sentenza del 10.10.2011, la Corte di Appello di Reggio Calabria, in
riforma della decisione del
Tribunale
di Locri, annullava il licenziamento intimato con lettera del
31.1.2004, per superamento del comporto per malattia, nei confronti
di l.O., ordinandone la reintegra e condannava l'appellata, s.r.l.
J.P., a risarcire alla predetta il danno subito, mediante
corresponsione della indennità di legge,
ordinando
alla l. di restituire alla controparte qualunque somma ricevuta in
forza della sentenza riformata. Osservava la Corte territoriale che
la natura professionale delle patologie dedotte dall'appellante
(lombosciatalgia bilaterale e cervicobrachialgia bilaterale) non era
sufficiente ad escludere le assenze derivatene da quelle computabili
per il comporto e che era necessaria, ai fini considerati,
l’imputabilità delle stesse a responsabilità datoriale. Nella
specie era emerso, anche dalla c.t.u. espletata, che il tipo di
lavoro svolto era stato concausa delle patologie osteoarticolari e
che le assenze dal lavoro, per un totale di 293 giorni su 322, erano
riconducibili, come emergeva dai
certificati
acquisiti agli atti di causa, a lombosciatalgia, determinata dalle
condizioni di lavoro (continue movimentazioni di carichi ed
esposizione a sbalzi di temperatura nel settore della floricultura).
Per
la cassazione ricorre la J.P. s.r.l., con tre motivi di impugnazione,
illustrati nella memoria depositata ai sensi dell’art. 378 c.p.c.
Resiste,
con controricorso, la società.
Motivi
della decisione
Con
il primo motivo, la società ricorrente denunzia violazione e falsa
applicazione degli artt. 414 e
416
c.p.c., degli artt. 434 e 437 c.p.c., nonché dell’art. 111 Cost.,
violazione degli artt. 1218 e 2697,
1469,
2087 e 2110 c. c. e violazione dell’art. 3 I. 604/66 e dell’art.
18 I. 300/70, in relazione all’art. 360, n. 3, c.p.c., assumendo
che la mancata allegazione e prova nel ricorso introduttivo della
malattia ha determinato la conseguente mancanza di prova in ordine
alla sussistenza del collegamento causale tra malattia stessa ed il
carattere morbigeno delle mansioni espletate, onde non poteva
pretendersi la non computabilità della assenze ai fini del comporto.
Rileva che la l. non aveva prodotto i certificati completi di
diagnosi e che la Corte territoriale ha potuto conoscere le patologie
dopo la chiusura della fase istruttoria in appello ed osserva che
peraltro la sentenza era erronea nella parte in cui aveva ritenuto
che nel ricorso introduttivo fossero state debitamente indicate le
patologie mediche risultanti dai certificati prodotti nel corso del
giudizio dalla lavoratrice, la quale aveva omesso di indicare il
collegamento causale delle assenze con l’ambiente lavorativo. Ciò
era rilevabile dal tenore della domanda, ove la deduzione della l.
era stata neutra ai fini del collegamento causale in esame e tale da
non consentire alla controparte adeguata contestazione, in mancanza
delle diagnosi contenute nei certificati trasmessi alla datrice di
lavoro.
Peraltro,
la società aveva opposto non solo che era stato fornita alla
lavoratrice il vestiario da lavoro
a
tutela dell’integrità fisica della lavoratrice, ma che
quest’ultima era stata ritenuta da medico incaricato, ex d.Igs.
626/94, idonea allo svolgimento specifico delle sue mansioni, sicché
la Corte non poteva fondare il proprio convincimento sulla scorta del
principio di non contestazione e sulla scorta dei documenti
tardivamente depositati, stante l’illegittimità dell'uso dei
poteri d’ufficio in grado d'appello.
Con
il secondo motivo, la società lamenta violazione degli artt. 1218,
2697, 1469, 2087 e 2110 c. c.,
dell’art.
2909 c.c. e violazione dell’art. 3 I. 604/66 e dell’art. 18 legge
n. 300/70, in relazione all'art.
360,
n. 3, c.p.c., nonché motivazione contraddittoria circa un fatto
controverso e decisivo per il giudizio, ex art. 360, n. 5, c.p.c.,
osservando che le affermazioni del consulente d'ufficio circa gli
sforzi ripetuti nel tempo e la incidenza degli stessi sulla patologia
non avevano alcuna rilevanza probatoria perché frutto della sommaria
intervista della lavoratrice effettuata dal C.t.u. in sede di visita,
ma priva di legale riscontro negli atti del giudizio, né oggetto di
opportuna percezione dal parte dello stesso ausiliare circa le
concrete modalità di svolgimento dell’attività lavorativa. Assume
che, inoltre, con motivazione contraddittoria, la Corte del merito ha
erroneamente ritenuto accertato che la prestazione lavorativa della
dipendente si svolgesse con modalità ed in ambiente morbigeno e
che
queste circostanze rappresentavano punti controversi e decisivi ai
fini della pronunzia. Il giudice del gravame, infine, secondo la
ricorrente, ha fatto riferimento ad altra sentenza emessa in diverso
procedimento, non opponibile, essendosi formata senza la
partecipazione a quel giudizio della società ed ininfluente perché
attinente alla natura professionale della malattia.
Con
il terzo motivo di impugnazione, la J.P. si duole della violazione
degli artt. 2087, 1460, 1175, 1345 e 2110 c. c., e della violazione
dell'art. 3 I. 604/66 e dell’art. 18 I. 300/70 in relazione
all’art. 360, n. 3, c.p.c., nonché della motivazione insufficiente
circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, ex art. 360,
n. 5, c.p.c., evidenziando il mancato accertamento della colpa
datoriale in relazione alla causazione di patologie che avrebbero
determinato il superamento del comporto. Assume che la Corte
territoriale avrebbe dovuto escludere ogni responsabilità del datore
di lavoro, tenuto conto del fatto che la lavoratrice era stata
ritenuta idonea alle mansioni e che non aveva mai comunicato di
soffrire delle patologie artrosiche.
Il
ricorso è infondato.
Quanto
al primo motivo, deve rilevarsi che la formulazione del motivo di
censura non è idonea a scalfire l’impianto argomentativo della
decisione, che si fonda sull’avvenuta allegazione in ricorso della
ricorrenza di patologie sofferte dalla lavoratrice tali da
determinarne l’assenza dal lavoro quanto meno per una parte
consistente di quest’ultima, circostanza non fatta oggetto di
specifica contestazione da parte del datore, che aveva limitato ogni
rilievo alla mancanza di riconducibilità delle patologie a sua
colpa. Né il riferimento specifico a documentazione sanitaria
incompleta da parte della ricorrente può rendere erronea la
pronunzia impugnata nella parte in cui ha ricostruito la fattispecie
sulla base di approfondimenti svolti nel corso del giudizio anche
attraverso l’acquisizione di documentazione sanitaria integrativa
di quella già allegata al ricorso. Al riguardo deve, infatti,
ritenersi consentita, in base a quanto già reiteratamente affermato
da questa Corte, la produzione di nuovi documenti in appello, in
deroga al divieto previsto dall’art. 345 c.p.c. sia quando tali
documenti siano "indispensabili" (eventualità che ricorre
tra l’altro quando il documento è di per sé sufficiente a provare
il fatto controverso, a prescindere da tutte le altre fonti di
prova), sia
quando
essi abbiano il mero scopo di rafforzare le prove già raccolte in
primo grado, perché in tal caso la produzione non è destinata ad
aprire un nuovo fronte di indagine (cfr. da ultimo, Cass. 29.5.2013
n. 13432, nonché Cass. 19.2.2009 n. 4080, Cass. 19.4.2006 n. 9120).
In particolare, è stato affermato che, nel rito del lavoro, il
rigoroso sistema delle preclusioni che regola in egual modo sia
l'ammissione delle prove costituite che di quelle costituende trova
un contemperamento - ispirato alla esigenza della ricerca della
"verità materiale", cui è doverosamente funzionalizzato
il rito del lavoro, teso a garantire una tutela differenziata in
ragione della natura dei diritti che nel giudizio devono trovare
riconoscimento - nei poteri d'ufficio del giudice in materia di
ammissione di nuovi mezzi di prova, ai sensi del citato art. 437,
secondo comma, cod. proc. civ., ove essi siano indispensabili ai fini
della decisione della peraltro, da esercitare pur sempre con
riferimento a fatti allegati dalle nel processo a seguito del
contraddittorio delle parti stesse (cfr. Cass. 23882).
E
nel caso considerato è stato evidenziato dal giudice del gravame
come, pur essendo basata l'impostazione difensiva della l. sul dato,
scontato ed implicito, che le assenze andavano integralmente
ricondotte alla patologia artrosica, non contestandosi la
riconducibilità delle assenze alla stessa malattia, il problema
della dipendenza di quest’ultima da responsabilità datoriale si
sia posto per la prima volta in secondo grado in virtù di
un’affermazione contenuta nella relazione di consulenza, a
conclusione del relativo accertamento, essendosi dunque evidenziata
l’esigenza per la l., di eliminare ogni residuo dubbio producendo
la copia dei certificati medici contenti anche la diagnosi delle
patologie sofferte, oltre che l’attestazione di malattia idonea a
giustificare l'assenza dal lavoro. Si tratta, all'evidenza, di
produzione giustificata dall’evolversi della vicenda processuale,
sicché non trova valido fondamento il rilievo - formulato con
riguardo alla tardività ed inammissibilità della relativa
produzione (cfr. Cass. 14.8.2004 n. 15912) .
Quanto
al secondo motivo, deve premettersi che l'adempimento dell'obbligo di
tutela dell’integrità fisica del lavoratore imposto dall'art. 2087
cod. civ. è un obbligo di prevenzione che impone al datore di lavoro
di adottare non solo le particolari misure tassativamente imposte
dalla legge in relazione allo specifico tipo d’attività esercitata
e quelle generiche dettate dalla comune prudenza, ma anche tutte le
altre misure che in concreto si rendano necessarie per proteggere il
lavoratore dai rischi connessi tanto all'impiego d'attrezzi e
macchinari quanto all'ambiente di lavoro, e deve essere verificato,
nel caso di malattia derivante dall'attività lavorativa svolta,
esaminando le misure in concreto adottate dal datore di lavoro per
prevenire l'insorgere della patologia (cfr. Cass. 8.2.2005 n.
2444).
Corollario di tale principio è che le assenze del lavoratore per
malattia non giustificano il recesso del datore di lavoro ove
l'infermità sia comunque imputabile a responsabilità dello stesso,
in dipendenza della nocività delle mansioni o dell'ambiente di
lavoro, che egli abbia omesso di prevenire o eliminare, in violazione
dell’obbligo di sicurezza o di specifiche norme, incombendo,
peraltro, sul lavoratore l’onere di provare il collegamento causale
fra la malattia e il carattere morbigeno delle mansioni espletate
(cfr. Cass. 7.4.2003 n. 5413). La non computabilità delle assenze
del lavoratore dovute ad infortunio sul lavoro o a malattia
professionale nel periodo di comporto si ispira, infatti, allo stesso
principio di tutela dell’integrità fisica del lavoratore, che non
consente di valutare secondo i normali criteri il periodo di assenza
dal lavoro prolungato oltre i limiti consentiti, nelle ipotesi in cui
l’infortunio sul lavoro o la malattia professionale non solo
abbiano avuto origine in fattori di nocività insiti nelle modalità
di esercizio delle mansioni e, comunque, presenti nell'ambiente di
lavoro, e siano pertanto collegate allo svolgimento dell'attività
lavorativa, ma, altresì, quando il datore di lavoro sia responsabile
di tale situazione nociva e dannosa, per essere egli inadempiente
all'obbligazione contrattuale a lui facente carico ai sensi dell'art.
2087 cod. civ., norma che gli impone di porre in essere le misure
necessarie - secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la
tecnica - per la tutela dell'integrità fisica e della personalità
morale del lavoratore, atteso che in tali ipotesi l'impossibilità
della prestazione lavorativa è imputabile al comportamento della
stessa parte cui detta prestazione è destinata (cfr. Cass. 28.3.2011
n. 7037).
Orbene,
deve ritenersi che la Corte del merito abbia fatto corretta
applicazione di tali principi, non limitandosi a considerare la
natura professionale della malattia, ma doverosamente accertando la
riconducibilità della stessa a colpa datoriale, il che ha verificato
non sulla base della sola sentenza emessa all'esito di diverso
procedimento cui non aveva partecipato la società (decisione che,
peraltro, aveva concluso per la natura professionale della patologia
artrosica, neanche, del resto, specificamente contestata), quanto e
decisivamente attraverso la c.t.u. espletata, le cui conclusioni sono
state nel senso che la lavorazione cui era addetta la l. era
caratterizzata dai rischi specifici costituiti dalla ripetuta
movimentazione di pesi sebbene non eccessivi e dalla esposizione a
sbalzi di temperatura. Né la difforme prospettiva valutativa
espressa dalla ricorrente nel secondo motivo di ricorso con riguardo
alla non incidenza, ai fini dell’individuazione di una
responsabilità datoriale, di circostanze ulteriori non
specificamente allegate in ricorso, ma emerse sede di consulenza
d’ufficio e dalle osservazioni dei consulenti tecnici di parte
relative alla ricorrenza di spostamenti di carichi, che, se pur non
eccessivi, venivano costantemente richiesti alla l., è di per sé
idonea a denotare la sussistenza del dedotto vizio anche
motivazionale. Ed invero, il consulente tecnico, nell'espletamento
del mandato ricevuto, può acquisire ai sensi dell'art. 194 cod.
proc. civ. – che consente di chiedere chiarimenti alle parti ed
assumere informazioni dai terzi - circostanze di fatto relative alla
controversia e all'oggetto dell’incarico. Tali circostanze di
fatto, se accompagnate dall'indicazione delle fonti e se non
contestate nella prima difesa utile, costituiscono fatti accessori
validamente acquisiti al processo che possono concorrere con le altre
risultanze di causa alla formazione del convincimento del giudice ed
essere da questi posti a base della decisione unitamente ai fatti
principali (cfr. Cass. 22.11.2007 n. 24323, Cass. 17.4.2003 n. 6195).
Anche il terzo motivo si articola sulla falsariga del precedente,
contestandosi l’accertamento della riconducibilità delle patologie
artrosiche a colpa datoriale ai fini della relativa esclusione dal
computo del periodo di comporto e dell’accertamento dell’eventuale
superamento del relativo periodo, sul rilievo della ritenuta idoneità
alle mansioni della lavoratrice all’esito di accertamenti disposti
dall’azienda e della mancata comunicazione da parte della prima di
patologie di tale tipo. In relazione alla responsabilità del datore
di lavoro per violazione degli obblighi di sicurezza, ex art. 2087
cod.civ., l'onere probatorio a carico del lavoratore non è limitato
alla prova dell’evento lesivo, ma comprende anche la prova del
nesso causale tra tale evento e l’attività svolta; in
quest'ambito, peraltro, è possibile la scomposizione del nesso
causale in relazione a diversi periodi dell'attività lavorativa, in
quanto determinate mansioni (nella specie, sollevamento carichi), in
sé faticose ma inizialmente non rischiose né particolarmente
usuranti per le modalità con le quali vengono svolte, possono,
tuttavia, divenire concausa dell'aggravamento di una malattia
preesistente a fronte dell'aggravarsi della situazione fisica del
lavoratore, portata a conoscenza del datore, il quale avrebbe dovuto
rideterminare il contenuto delle mansioni del lavoratore, e dei
propri obblighi di protezione, esentandolo dal compimento
dell'attività divenuta rischiosa (cfr. Cass. 17.5.2006 n. 11523).
Deve,
poi, considerarsi, che nei giudizi nel corso dei quali sia stata
esperita c.t.u. di tipo medicolegale, nel caso in cui il giudice del
merito si basi sulle conclusioni dell'ausiliario giudiziario,
affinché i lamentati errori e lacune della consulenza tecnica
determinino un vizio di motivazione della sentenza denunciabile in
cassazione, è necessario che i relativi vizi logico-formali si
concretino in una palese devianza dalle nozioni della scienza medica
o si sostanzino in affermazioni illogiche o scientificamente errate,
con il relativo onere, a carico della parte interessata, di indicare
le relative fonti, senza potersi la stessa limitare a mere
considerazioni sulle prospettazioni operate dalla controparte, che si
traducono in una inammissibile critica del convincimento del giudice
di merito che si sia fondato, per l'appunto, sulla consulenza tecnica
(cfr. Cass. 25.8.2005 n. 17324, Cass. 7.9.2007 n. 18906). Nella
specie è emerso che l'adibizione dello l., già esposta a
temperature che favorivano l'insorgenza di patologie artrosiche, allo
spostamento di carichi continuativi, abbia determinato, in concorso
con fattori extralavorativi, il manifestarsi della lombo e della
lombosciatalgia e della cervicobrachialgia, sicché deve ritenersi
che correttamente, in rapporto alle condizioni di lavoro incidenti
sull’acuirsi della patologia determinante l'assenza dal lavoro per
numerosi giorni, della malattia stessa sia stato reputato
responsabile il datore di lavoro che ha determinato tale situazione
nociva e dannosa, omettendo, ai sensi dell'art. 2087 cod. civ., di
porre in essere le misure necessarie - secondo la particolarità del
lavoro, l'esperienza e la tecnica - per la tutela dell'integrità
fisica e della personalità morale del lavoratore.
Rispetto
alla rilevanza di tale dato, ritenuto decisivo ai fini del giudizio,
la ricorrente non ha evidenziato nell’esame condotto dal giudice
del merito alcuna omissione di elementi ugualmente significativi
idonei a sovvertire l'esito del giudizio, atteso che (’accertata
idoneità della dipendente a svolgere le proprie mansioni, nel corso
dei controlli preventivi e periodici di cui all’art. 16 l. 626/94,
volti
all’accertamento dello stato di salute dei lavoratori, si pone su
un piano distinto rispetto all’oggetto limitato del presente
giudizio, nel quale si controverte sulla riconducibilità di
determinate assenze a patologia determinata dal datore di lavoro.
Alla
stregua di tutte le considerazioni svolte, deve pervenirsi al rigetto
del ricorso.
P.Q.M.
Rigetta
il ricorso e condanna la società ricorrente al pagamento delle spese
di lite del presente giudizio, liquidate in euro 100,00 per esborsi
ed in euro 3.000,00 per compensi professionali, oltre accessori come
per legge.
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.