Cassazione
IV Penale 9 maggio - 17 ottobre 2013, n. 42656
Ritenuto
in fatto
1.
Con sentenza in data 27 gennaio 2012, la Corte d'appello di Bologna,
in riforma della sentenza del Tribunale di Ravenna in data 30 gennaio
2008 appellata dal PM e dalla parte civile nei confronti
dell'imputato M.M. , dichiarava non doversi procedere nei suoi
confronti in ordine al delitto ascrittogli perché estinto per
prescrizione e dichiarava il medesimo civilmente responsabile dei
danni cagionati alla parte civile da liquidarsi in separato giudizio,
assegnando una provvisionale di Euro 30.000,00. Il M. era stato
tratto a giudizio per rispondere del reato p. e p. dall'art. 590 c.p.
perché quale primo operatore nel corso dell'intervento chirurgico di
asportazione di un fibroma uterino di 7-8 cm di diametro con tecnica
laparoscopica alla paziente B.S. , per colpa consistita in generica
negligenza, imprudenza ed imperizia, in particolare avendo scelto,
inspiegabilmente, nel corso dell'intervento, di non utilizzare la
strumentazione a disposizione (il carotatore o morcellatore strumento
necessario per frantumare il fibroma ed estrarlo attraverso il
trocar), nonostante fosse funzionante in quel momento, e quindi di
non proseguire con la tecnica laparoscopica, andando invece in modo
inusuale ad allargare il foro di accesso del trocar ancellare di
destra per estrarre il fibroma, cagionava alla predetta la lesione
alla parete dell'arteria epigastrica inferiore che lo costringeva
successivamente ad eseguire una laparotomia con andamento trasversale
ed obliquo che attraversava la parete addominale il tutto con un
decorso postoperatorio superiore a quello che si sarebbe avuto con la
sola laparoscopia se proseguita ed il residuare di postumi permanenti
rappresentati da più estesi esiti cicatriziali e dalla comparsa di
dolenza all'addome durante la deambulazione.
2.
Avverso tale decisione proponeva ricorso il M. , censurando la
gravata sentenza per violazione od errata applicazione dell'art. 43
comma 1 alinea 3 c.p. con contestuale illogica motivazione in ordine
alla ritenuta colpa in capo al M. per il mancato utilizzo del
carotatore; la violazione o errata applicazione dell'art. 43 comma 1
alinea 3 c.p. con contestuale omessa, illogica o contraddittoria
motivazione in ordine alla colpa dell'imputato con riferimento alla
lesione dell'arteria epigastrica inferiore; deduceva inoltre la
omessa, illogica o contraddittoria motivazione in ordine alla
ritenuta colpa del M. per la scelta di procedere alla laparotomia; la
illogica motivazione in ordine alla ritenuta non rilevanza del
consenso informato; la violazione od errata applicazione dell'art.
590 c.p. con riferimento al decorso postoperatorio; la omessa o
illogica motivazione in ordine alla liquidazione della provvisionale.
Considerato
in diritto
3.
I fatti sono stati così ricostruiti nella gravata sentenza: in data
20 febbraio 2001 la signora B. si sottoponeva ad un intervento
chirurgico per l'asportazione di un fibroma uterino mediante la
tecnica di laparoscopia a due vie, peraltro dopo aver regolarmente
sottoscritto il modulo del consenso informato nel quale si prevedeva
la possibilità del passaggio a tecnica laparotomica nel caso si
fosse riscontrata, nel corso dell'interevento, una situazione tale da
richiedere un trattamento più complicato e/o differente da quello
precedentemente discusso; al momento dell'impiego del carotatore,
strumento necessario a sbriciolare il fibroma, già staccato
dall'utero, per poterlo spostare attraverso il foro d'accesso del
trocar, il dott. M. ne rilevava la non funzionalità, decidendo a
quel punto di allargare il foro di accesso del trocar per consentire
il passaggio del fibroma; in tale fase veniva lesa la parte
dell'arteria epigastrica; iniziava un copioso sanguinamento per
arginare il quale il medico operatore confortato dall'aiuto
assistente, convettiva l'intervento laparoscopico in intervento
laparotomico con evidente maggiore invasività sul piano della durata
della degenza e della convalescenza e con postumi rilevanti a livello
estetico per il residuare di notevoli esiti cicatriziali eso ed
endoaddominali.
4.
Con il primo motivo di gravame il M. sostiene che difetterebbero
profili di colpa a suo carico per quanto concerne il mancato utilizzo
del carotatore che sarebbe dipeso dal malfunzionamento della
strumentazione in questione. Trattasi del fulcro dell'impostazione
difensiva dell'imputato già avanzata nelle fasi di merito. Sul punto
la gravata sentenza ha evidenziato l’(eventuale) malfunzionamento
dello strumento, peraltro non posto in discussione in sede peritale,
costituisse un ulteriore profilo di negligenza avendo l'imputato
omesso di verificarne la funzionalità prima di iniziare
l'intervento, pur sapendo che l'uso sarebbe stato necessario nel
contesto della tecnica programmata. Il ricorrente non contesta tale
affermazione (mancata verifica del funzionamento) ma deduce
unicamente che anche ove detta verifica fosse stata effettivamente
compiuta, nulla sarebbe cambiato in quanto il mancato funzionamento
del carotatore sarebbe dipeso da un falso contatto hic et nunc
verificatosi.
È
evidente il carattere meramente congetturale di tale affermazione,
anche in considerazione della circostanza che - come riconosciuto
dallo stesso ricorrente- alcuni dei testi escussi hanno confermato
che il carotatore funzionava sia prima che dopo l'intervento.
Comunque sul punto la ricostruzione operata dalla sentenza impugnata
appare corretta; senza incorrere in palesi illogicità, la Corte
territoriale ha ampiamente illustrato, infatti, le ragioni che
l'hanno indotta a riformare la sentenza di primo grado. Peraltro in
sede di legittimità è possibile rivedere il percorso motivazionale
della sentenza impugnata nei soli casi in cui lo stesso si mostri
manifestamente (cioè grossolanamente, vistosamente, ictu oculi)
illogico o contraddittorio, dovendo, peraltro, il vizio risultare,
oltre che dalla medesima sentenza, da specifici atti istruttori,
espressamente richiamati (art. 606, comma 1, lett. e). Né in questa
sede sarebbe consentito sostituire la motivazione del giudice di
merito, pur anche ove il proposto ragionamento alternativo apparisse
di una qualche plausibilità. Come precisato da questa Corte (cfr.
Sez. 4, sentenza n. 15556 del 12/2/2008) il nuovo testo dell'art. 606
c.p.p., comma 1, lett. e), come modificato dalla L. 20 febbraio 2006,
n. 46, con la ivi prevista possibilità per la Cassazione di
apprezzare i vizi della motivazione anche attraverso gli "atti
del processo", non ha alterato la fisionomia del giudizio di
cassazione, che rimane giudizio di legittimità e non si trasforma in
un ennesimo giudizio di merito sul fatto. In questa prospettiva, non
è tuttora consentito alla Corte di cassazione di procedere a una
rinnovata valutazione dei fatti ovvero a una rivalutazione del
contenuto delle prove acquisite, trattandosi di apprezzamenti
riservati in via esclusiva al giudice del merito. Il "novum"
normativo, invece, rappresenta il riconoscimento normativo della
possibilità di dedurre in sede di legittimità il cosiddetto
travisamento della prova, finora ammesso in via di interpretazione
giurisprudenziale: cioè, quel vizio in forza del quale la
Cassazione, lungi dal procedere a un'inammissibile rivalutazione del
fatto e del contenuto delle prove, può prendere in esame gli
elementi di prova risultanti dagli atti onde verificare se il
relativo contenuto sia stato o no "veicolato", senza
travisamenti, all'interno della decisione. È stato utilmente
chiarito (sentenza 6/11/2009, n. 43961 di questa Sezione) che il
giudice di legittimità è tuttora giudice della motivazione, senza
essersi trasformato in un terzo giudice del fatto. Pertanto, ove si
deduca il vizio di motivazione risultante dagli atti del processo non
è sufficiente che detti atti siano semplicemente contrastanti con
particolari accertamenti e valutazioni del giudicante o con la sua
complessiva ricostruzione dei fatti e delle responsabilità, ne1 che
siano astrattamente idonei a fornire una ricostruzione più
persuasiva di quella fatta propria dal giudice. Occorre, invece, che
gli atti del processo, su cui fa leva il ricorrente per sostenere la
sussistenza di un vizio della motivazione, siano autonomamente dotati
di una forza esplicativa o dimostrativa tale che la loro
rappresentazione disarticoli l'intero ragionamento svolto dal
giudicante e determini al suo interno radicali incompatibilità, così
da vanificare o da rendere manifestamente incongrua o contraddittoria
la motivazione. In definitiva, l'imputato non sottopone, come avrebbe
dovuto, al giudice della legittimità profili decisivi della
motivazione del giudice d'appello, gravemente viziati da interna
incongruenza o evidente contraddizione con le risultanze processuali,
ma si limita a perseverare nella propria tesi ricostruttiva.
5.
Con il secondo motivo deduce il ricorrente che non gli sarebbe
comunque addebitabile l'intervenuta lesione dell'arteria epigastrica.
La Corte territoriale ha a riguardo osservato che la minilaparatomia
effettuata dal M. per allargare il foro di accesso del trocar di
destra, zona anatomica in cui decorrono importanti vasi sanguigni,
sostanzialmente "alla cieca", senza adottare taluni
indispensabili accorgimenti, quali la transilluminazione della parte
addominale e, man mano che si procede con l'incisione, l'osservazione
diretta laparoscopica della zona che si va ad incidere (in questo
caso addirittura ad ampliare), accorgimenti che, secondo i periti,
pur non escludendo del tutto il rischio di lesioni del vaso sanguigno
- sempre presente nel caso di incisioni per il posizionamento di
troncar ancillari - ne avrebbe enormemente ridotto l'eventualità,
tant'è che essi sono previsti come regola e non come mera opzione
del chirurgo. Non hanno quindi pregio le deduzioni del ricorrente
secondo cui difetterebbe il nesso causale tra le sue sostanzialmente
ammesse omissioni ed il verificarsi dell'evento.
Osserva
la Corte: per un corretto inquadramento della problematica relativa
all'accertamento di profili di colpa nell'esercizio della professione
sanitaria, con particolare riferimento all'individuazione del nesso
di causalità tra condotta ed evento, appare indispensabile
soffermarsi preliminarmente sull'evoluzione della giurisprudenza di
legittimità in materia, con specifico riferimento alla condotta
omissiva. In epoca meno recente è stato talora affermato che a far
ritenere la sussistenza del rapporto causale, "quando è in
gioco la vita umana anche solo poche probabilità di successo....
sono sufficienti" (Sez. 4, n. 4320/83); in altra occasione si è
specificato che, pur nel contesto di una "probabilità anche
limitata", deve trattarsi di "serie ed apprezzabili
possibilità di successo" (considerandosi rilevante, alla
stregua di tale parametro, una possibilità di successo del 30%: Sez.
4, n. 371/92); altra volta, ancora, non aveva mancato la Suprema
Corte di affermare che "in tema di responsabilità per colpa
professionale del medico, se può essere consentito il ricorso ad un
giudizio di probabilità in ordine alla prognosi sugli effetti che
avrebbe potuto avere, se tenuta, la condotta dovuta..., è necessario
che l'esistenza del nesso causale venga riscontrata con sufficiente
grado di certezza, se non assoluta...almeno con un grado tale da
fondare su basi solide un'affermazione di responsabilità, non
essendo sufficiente a tal fine un giudizio di mera verosimiglianza"
(Sez. 4, n. 10437/93). In tempi meno remoti la prevalente
giurisprudenza di questa Corte ha costantemente posto l'accento sulle
"serie e rilevanti (o apprezzabili) possibilità di successo",
sull’”alto grado di possibilità", ed espressioni simili
(così, Sez. 4, n. 1126/2000: nella circostanza è stata apprezzata,
a tali fini, una percentuale del 75 % di probabilità di
sopravvivenza della vittima, ove fossero intervenute una diagnosi
corretta e cure tempestive). Alla fine dell'anno 2000 la Suprema
Corte in due occasioni (Sez. 4, 28 settembre 2000, Musto, e Sez. 4,
29 novembre 2000, Baltrocchi) ha poi sostanzialmente rivisto "ex
novo" la tematica in questione procedendo ad ulteriori
puntualizzazioni. In tali occasioni è stato invero rilevato che "il
problema del significato da attribuire alla espressione con alto
grado di probabilità...non può essere risolto se non attribuendo
all'espressione il valore, il significato, appunto, che le
attribuisce la scienza e, prima ancora, la logica cui la scienza si
ispira, e che non può non attribuirgli il diritto"; ed è stato
quindi affermato che "per la scienza" non v'è alcun dubbio
che dire alto grado di probabilità, coltissima percentuale, numero
sufficientemente alto di casi, voglia dire che, in tanto il giudice
può affermare che una azione o omissione sono state causa di un
evento, in quanto possa effettuare il giudizio contro fattuale
avvalendosi di una legge o proposizione scientifica che enuncia una
connessione tra eventi in una percentuale vicina a cento....",
questa in sostanza realizzando quella "probabilità vicina alla
certezza". Successivamente (Sez. 4, 23/1/2002, dep. 10/6/2002,
Orlando) è stata sottolineata la distinzione tra la probabilità
statistica e la probabilità logica, ed è stato evidenziato come una
percentuale statistica pur alta possa non avere alcun valore
eziologico effettivo quando risulti che, in realtà, un certo evento
è stato cagionato da una diversa condizione; e come, al contrario,
una percentuale statistica medio-bassa potrebbe invece risultare
positivamente suffragata in concreto dalla verifica della
insussistenza di altre possibili cause esclusive dell'evento, di cui
si sia potuto escludere l'interferenza. È stato dunque richiesto
l'intervento delle Sezioni Unite in presenza del radicale contrasto
che nel tempo si era determinato all'interno della giurisprudenza di
legittimità tra due contrapposti indirizzi interpretativi in ordine
alla ricostruzione del nesso causale tra condotta omissiva ed evento,
con particolare riguardo alla materia della responsabilità
professionale del medico-chirurgo: secondo talune decisioni, che
hanno dato vita all'orientamento delineatosi più recentemente,
sarebbe necessaria la prova che un diverso comportamento dell'agente
avrebbe impedito l'evento con un elevato grado di probabilità
"prossimo alla certezza", e cioè in una percentuale di
casi "quasi prossima a cento"; secondo altre decisioni
sarebbero invece sufficienti "serie ed apprezzabili probabilità
di successo" per l'impedimento dell'evento.
Le
Sezioni Unite si sono quindi pronunciate con la sentenza n. 30328 del
10/07/2002 (imp. Franzese), con la quale sono stati individuati i
criteri da seguire perché possa dirsi sussistente il nesso causale
tra la condotta omissiva e l'evento, e sono stati enunciati taluni
principi che appare opportuno qui sinteticamente ricordare: 1) il
nesso causale può essere ravvisato quando, alla stregua del giudizio
controfattuale condotto sulla base di una generalizzata regola di
esperienza o di una legge scientifica - universale o statistica - si
accerti che, ipotizzandosi come realizzata dal medico la condotta
doverosa impeditiva dell'evento "hic et nunc", questo non
si sarebbe verificato, ovvero si sarebbe verificato ma in epoca
significativamente posteriore o con minore intensità lesiva; 2) non
è consentito dedurre automaticamente dal coefficiente di probabilità
espresso dalla legge statistica la conferma, o meno, dell'ipotesi
accusatoria sull'esistenza del nesso causale, poiché il giudice deve
verificarne la validità nel caso concreto, sulla base delle
circostanze del fatto e dell'evidenza disponibile, così che,
all'esito del ragionamento probatorio che abbia altresì escluso
l'interferenza di fattori alternativi, risulti giustificata e
processualmente certa la conclusione che la condotta omissiva del
medico è stata condizione necessaria dell'evento lesivo con "alto
o elevato grado di credibilità razionale" o "probabilità
logica"; 3) l'insufficienza, la contraddittorietà e
l'incertezza del riscontro probatorio sulla ricostruzione del nesso
causale, quindi il ragionevole dubbio, in base all'evidenza
disponibile, sulla reale efficacia condizionante della condotta
omissiva del medico rispetto ad altri fattori interagenti nella
produzione dell'evento lesivo, comportano la neutralizzazione
dell'ipotesi prospettata dall'accusa e l'esito assolutorio del
giudizio; 4) alla Corte di Cassazione, quale giudice di legittimità,
è assegnato il compito di controllare retrospettivamente la
razionalità delle argomentazioni giustificative - la c.d.
giustificazione esterna - della decisione, inerenti ai dati empirici
assunti dal giudice di merito come elementi di prova, alle inferenze
formulate in base ad essi ed ai criteri che sostengono le
conclusioni: non la decisione, dunque, bensì il contesto
giustificativo di essa, come esplicitato dal giudice di merito nel
ragionamento probatorio che fonda il giudizio di conferma
dell'ipotesi sullo specifico fatto da provare. Può dunque affermarsi
che le Sezioni Unite hanno ripudiato qualsiasi interpretazione che
faccia leva, ai fini della individuazione del nesso causale quale
elemento costitutivo del reato, esclusivamente o prevalentemente su
dati statistici ovvero su criteri valutativi a struttura
probabilistica, in tal modo mostrando di propendere, tra i due
contrapposti indirizzi interpretativi sopra ricordati, maggiormente
verso quello delineatosi in tempi più recenti. L'articolato percorso
motivazionale seguito nella sentenza Franzese, induce tuttavia a
ritenere che le Sezioni Unite, nel sottolineare la necessità
dell'individuazione del nesso di causalità (quale "condicio
sine qua non" di cui agli artt. 40 e 41 c.p.) in termini di
certezza, abbiano inteso riferirsi non alla certezza oggettiva
(storica e scientifica), risultante da elementi probatori di per sé
altrettanto inconfutabili sul piano della oggettività, bensì alla
"certezza processuale" che, in quanto tale, non può essere
individuata se non con l'utilizzo degli strumenti di cui il giudice
dispone per le sue valutazioni probatorie: "certezza" che
deve essere pertanto raggiunta dal giudice valorizzando tutte le
circostanze del caso concreto sottoposto al suo esame, secondo un
procedimento logico - analogo a quello seguito allorquando si tratta
di valutare la prova indiziaria, la cui disciplina è dettata
dall'art. 192 c.p.p., comma 2 - che consenta di poter ricollegare un
evento ad una condotta omissiva "al di là di ogni ragionevole
dubbio" (vale a dire, con alto o elevato grado di credibilità
razionale o probabilità logica). Invero, non pare che possa
diversamente intendersi il pensiero che le Sezioni Unite hanno voluto
esprimere allorquando hanno testualmente affermato che deve risultare
giustificata e processualmente certa la conclusione che la condotta
omissiva del medico è stata condizione necessaria dell'evento lesivo
con alto o elevato grado di credibilità razionale o probabilità
logica. Ciò detto, non resta ora che verificare se, nel caso che ne
occupa, l'iter argomentativo seguito dai giudici di seconda istanza -
posto a fondamento del convincimento della responsabilità
dell'odierno ricorrente - sia in sintonia con i principi di cui sopra
affermati dalle Sezioni Unite. La risposta è sicuramente positiva.
Il primo punto fermo che le Sezioni Unite hanno inteso ribadire - che
peraltro ha rappresentato sempre, a prescindere dall'indirizzo
interpretativo di volta in volta seguito, il necessario presupposto
fattuale di partenza, ai fini dell'accertamento della penale
responsabilità del medico per colpa omissiva - è che, nella
ricostruzione del nesso eziologico, non può assolutamente
prescindersi dall'individuazione di tutti gli elementi concernenti la
causa dell'evento: solo conoscendo in tutti i suoi aspetti fattuali e
scientifici il momento iniziale e la successiva evoluzione della
malattia, è poi possibile analizzare la condotta (omissiva) colposa
addebitata al sanitario per effettuare il giudizio controfattuale e
verificare se, ipotizzandosi come realizzata la condotta dovuta,
l'evento lesivo sarebbe stato evitato "al di là di ogni
ragionevole dubbio".Orbene, la motivazione fornita dalla Corte
d'Appello di Bologna con la sentenza impugnata - all'esame
retrospettivo demandato a questa Corte circa la logicità e
razionalità delle argomentazioni giustificative addotte dai giudici
di seconda istanza a fondamento della propria statuizione - non si
presenta censurabile. La Corte d'Appello ha valutato con doveroso
approfondimento le circostanze del caso, indicando elementi concreti
e dati fattuali per escludere - in termini di certezza processuale e
di elevata credibilità razionale sulla base di una generalizzata
regola di esperienza o di una legge scientifica -che l'evento lesivo
si sarebbe comunque verificato.
6.
Sostiene ancora il M. di essersi trovato a fronteggiare una
situazione di particolare complessità tecnica e che la valutazione
della sua responsabilità doveva essere effettuata in coordinamento
con l'art. 2236 c.c. che, per le ipotesi di danno provocato dal
prestatore d'opera qualora la prestazione richieda la soluzione di
problemi tecnici di particolare difficoltà, il prestatore sia tenuto
al risarcimento nei soli casi di dolo o colpa grave. Il motivo,
peraltro assai genericamente formulato, è infondato, considerato da
un lato che è solo una mera enunciazione che il M. si sia trovato a
fronteggiare una situazione di particolare complessità tecnica,
dall'altro che l'(eventuale) maggiore complessità dell'intervento
era stato determinato dalle stesse scelte "inopportune"
dell'imputato che, peraltro, come sottolineato dai giudici di
appello, aveva proceduto alla estrazione del fibroma ampliando una
delle vie di ingresso dei trocar laterali, anziché praticare un
taglio sufficiente al passaggio del fibroma sulla linea mediana, due
centimetri sopra la sinfisi pubica (dato che una minilaparatomia
sarebbe stata comunque meno invasiva, anche esteticamente, di quella
poi in concreto resasi necessaria per bloccare l'emorragia) - cfr. p.
9 dell'impugnata sentenza.
7.
Con il quarto motivo si deduce che la Corte territoriale non avrebbe
dato rilievo alla circostanza (pacifica) che la paziente aveva
sottoscritto un modulo di consenso informato il quale prevedeva
espressamente la possibilità del passaggio da tecnica laparoscopica
a tecnica di laparotomia. La Corte di merito, ferme restando le
osservazioni di cui sopra - ha correttamente osservato in proposito
(p. 12) che la sottoscrizione da parte della paziente del consenso
informato, non libera da responsabilità derivante da fatto proprio
colposo dell'operatore.
Rileva
a riguardo la Corte: è incontestabile che l'attività medico
chirurgica, per essere legittima, presuppone il "consenso"
del paziente, che non si identifica con quello di cui all'art. 50
c.p., ma costituisce un presupposto di liceità del trattamento:
infatti, il medico, di regola ed al di fuori di taluni casi
eccezionali (allorché il paziente non sia in grado per le sue
condizioni di prestare un qualsiasi consenso o dissenso, ovvero, più
in generale, ove sussistano le condizioni dello stato di necessità
di cui all'art. 54 c.p.), non può intervenire senza il consenso o
malgrado il dissenso del paziente. In questa prospettiva, il
"consenso", per legittimare il trattamento terapeutico,
deve essere "informato", cioè espresso a seguito di una
informazione completa, da parte del medico, dei possibili effetti
negativi della terapia o dell'intervento chirurgico, con le possibili
controindicazioni e l'indicazione della gravità degli effetti del
trattamento. Il consenso informato, infatti, ha come contenuto
concreto la facoltà non solo di scegliere tra le diverse possibilità
di trattamento medico, ma anche di eventualmente rifiutare la terapia
e di decidere consapevolmente di interromperla, in tutte le fasi
della vita, anche in quella terminale. Tale conclusione, fondata sul
rispetto del diritto del singolo alla salute, tutelato dall'art. 32
Cost., (per il quale i trattamenti sanitari sono obbligatori nei soli
casi espressamente previsti dalla legge), sta a significare che il
criterio di disciplina della relazione medico - malato è quello
della libera disponibilità del bene salute da parte del paziente in
possesso delle capacità intellettive e volitive, secondo una totale
autonomia di scelte che può comportare il sacrificio del bene stesso
della vita e che deve essere sempre rispettata dal sanitario (Cass.
pen. Sez. 4, n. 37077 del 24.6.2008, Rv. 240977). Di certo, la
mancanza del consenso (opportunamente informato) del malato o la sua
invalidità per altre ragioni, determina l'arbitrarietà del
trattamento medico-chirurgico e la sua rilevanza penale, in quanto
posto in violazione della sfera personale del soggetto e del suo
diritto di decidere se permettere interventi estranei sul proprio
corpo, ma la valutazione del comportamento del medico, sotto il
profilo penale, quando si sia in ipotesi sostanziato in una condotta
(vuoi omissiva, vuoi commissiva) dannosa per il paziente, non ammette
un diverso apprezzamento a seconda che l'attività sia stata prestata
con o in assenza di consenso. Cosicché il giudizio sulla sussistenza
della colpa non presenta differenze di sorta a seconda che vi sia
stato o no il consenso informato del paziente. Dunque il consenso
informato, anche se corretto e adeguato e corrisposto dalla reale ed
integrale comprensione del paziente, non vale ad escludere la colpa
del medico che abbia operato negligentemente o imperitamente ovvero
in violazione delle leges artis. Ne consegue che a nulla rileva ex
se, ai fini dell'esclusione della responsabilità, l'eventuale
adeguatezza della comunicazione ed illustrazione dei rischi connessi
all'intervento al paziente che si risolse, ciononostante, ad
affrontarlo (cfr. Sez. 4, n. 4541 del 2013, Falasco (PC) c. Carlino).
8.
Con il penultimo motivo si sostiene che debba negarsi che il decorso
postoperatorio rientri nel concetto di "malattia". Il
motivo è strettamente collegato a quello successivo in quanto
formulato- stante la intervenuta declaratoria di estinzione del
reato- con esclusivo riferimento alla liquidazione della
provvisionale effettuata nella gravata sentenza che ha assunto come
base per la determinazione del danno la durata appunto della
"malattia". La doglianza concernente l'entità della
provvisionale presente evidenti profili di inammissibilità tenuto
conto del consolidato indirizzo interpretativo delineatosi nella
giurisprudenza di questa Corte, secondo cui le questioni relative
alla pretesa eccessività della somma di denaro liquidata a titolo di
provvisionale non sono deducibili con il ricorso per cassazione,
(cfr. Sez. 4, Sentenza n. 34791 del 23/06/2010, Mazzamurro, Rv.
248348).
9.
Il ricorso va pertanto rigettato. Ne consegue ex art. 616 c.p.p. la
condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta
il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese
processuali.
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.