Corte di Cassazione Terza civile Data: 26.02.2013
Numero: 4781
LA CORTE SUPREMA DI
CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi
Sigg.ri Magistrati:
Dott. SEGRETO Antonio
- Presidente -
Dott. AMATUCCI
Alfonso - Consigliere -
Dott. VIVALDI Roberta
- Consigliere -
Dott. FRASCA Raffaele
- rel. Consigliere -
Dott. SCRIMA
Antonietta - Consigliere -
ha pronunciato la
seguente:
sentenza
sul ricorso
17598/2007 proposto da:
P.A.;
- ricorrente -
Contro G.E., G.M.P., G.P.P.L., C.M.G., in qualità di
eredi di G.A., ;
- controricorrenti -
avverso la sentenza n. 125/2006 della Corte d'Appello di Cagliari,
depositata il 24/04/2006, R.G.N. 684/2003; udita la relazione della causa
svolta nella pubblica udienza del 23/01/2013 dal Consigliere Dott. Raffaele
Frasca; udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.
Basile Tommaso, che ha concluso per il rigetto del ricorso.
Svolgimento del
processo
p.1. P.A. ha proposto ricorso per cassazione contro C. M.G., G.E.,
G.M.P. e G.P.P.L. avverso la sentenza del 24 aprile 2006, con cui la Corte
d'Appello di Cagliari ha accolto per quanto di ragione sia l'appello principale
degli intimati, sia quello di essa ricorrente avverso la sentenza resa in primo
grado inter partes dal Tribunale di Cagliari il 20 marzo 2003 sulla
controversia introdotta dalla stessa ricorrente nel dicembre del 1994 contro
gli intimati, nella qualità di eredi del defunto Avvocato G.A., per ottenere il
risarcimento dei danni sofferti per la dedotta responsabilità professionale del
de cuius nell'esecuzione di un mandato professionale giudiziale conferitogli
con riguardo ad una controversia di risarcimento danni da sinistro stradale,
nel quale era deceduto il fratello. Tale controversia era stata dichiarata
estinta perchè un atto di riassunzione da parte della P. a mezzo del suo
difensore era avvenuto con notificazione soltanto nei confronti del
responsabile civile e non anche nei riguardi della sua società assicuratrice
per la r.c.a. La relativa sentenza non era stata appellata dalla P. - per come
ha accertato la sentenza impugnata con decisione sul punto ormai non più
oggetto di discussione - per responsabilità del de cuius. Donde la
responsabilità professionale per la perdita da parte della P. del diritto al
risarcimento del danno derivato dal sinistro.
p.2. Il Tribunale aveva riconosciuto la responsabilità professionale
dei convenuti e li aveva condannati al risarcimentodel danno nella misura di
Euro 7.000,00 oltre interessi, con gravame delle spese di lite.
La Corte territoriale rigettava l'appello principale degli eredi in
ordine alla sussistenza della responsabilità del de cuius, pur rinvenendo
quest'ultima per ragioni diverse da quelle ritenute dal primo giudice. Lo
accoglieva quanto alle doglianze intese ad escludere il danno patrimoniale e la
ripartizione del dovuto fra gli eredi ai sensi dell'art. 752 c.c. , nonchè per
quella relativa all'omessa pronuncia sulla domanda riconvenzionale avente ad
oggetto il pagamento delle spettanze per l'attività professionale eseguita dal
de cuius fino alla pronuncia della ordinanza di estinzione e lo rigettava per
il resto. La Corte cagliaritana, inoltre, accoglieva parzialmente, per quanto
ancora interessa, l'appello incidentale riguardo alla misura del danno non
patrimoniale.
p.3. Al ricorso per cassazione hanno resistito con congiunto
controricorso tutti gli intimati.
Motivazione
p.1. Con il primo motivo del ricorso si deduce "violazione e
falsa applicazione di norme di diritto (artt. 1223, 1226, 2056 e 2059 c.c.)
Art. 360 c.p.c., n. 3 - Omessa insufficiente e contraddittoria motivazione
della sentenza ex art. 360 c.p.c., n. 5".
Vi si sostiene che la liquidazione del danno morale sarebbe stata
irrisoria ed irrazionale, in quanto, pur essendo avvenuta in via equitativa,
come era necessario, non avrebbe rispettato il criterio della correlazione tra
entità oggettiva del danno e suo equivalente pecuniario e non avrebbe
assicurato che detto equivalente, stabilito in L. 1.000.000 al momento del
fatto dannoso e attualizzato in Euro 7.953,44, non sia solo apparente e
simbolico. In particolare, si sostiene che la Corte di merito "venendo
meno all'obbligo motivazionale che avrebbe richiesto di dar conto di avere debitamente
considerato ogni elemento di fatto acquisito al processo utile ai fini della
liquidazione, non ha tenuto in alcun conto della giovane età del defunto e
della sorella, allora ventenni e del fatto che, all'epoca dell'incidente
fossero conviventi, come risultava dal certificato dell'Ufficio Anagrafe di
Carbonia prodotto con le note del 26.02.2004, depositate presso la Corte di
Appello di Cagliari il 02.03.2004". La Corte territoriale, infatti, si
sarebbe, invece, limitata a fare riferimento in modo del tutto apodittico
"alle somme che venivano liquidate per tale causale all'epoca de
fatti" ed avrebbe tenuto conto solo che "il dolore del parente
collaterale è da ritenere in genere sensibilmente minore di quello dei parenti
diretti del defunto".
In tal modo la Corte non si sarebbe attenuta al principio di diritto
che si trascrive quasi testualmente affermato da Cass. n. 15568 del 2004,
secondo cui "La liquidazione del danno morale non può essere compiuta se
non con criteri equitativi, tenendo conto della gravità del reato e del patema
d'animo subito dalla vittima. La concreta determinazione dell'ammontare del
danno, che non può in ogni caso essere compiuta con riferimento ai valori medi
adottati dall'ufficio giudiziario per casi consimili, rimane insindacabile in
sede di legittimità qualora il giudice dia conto d'aver considerato questi
fattori ed il giudizio sia congruente al caso (con adeguamento del danno alle
singole realtà individuali in considerazione degli aspetti relazionali tra
superstiti e defunto e conseguente riconoscimento ai parenti più prossimi o conviventi
di un risarcimento maggiore, sul presupposto - desunto dalle comuni regole di
esperienza - che quanto più stretto è il rapporto parentale tanto più intenso è
il dolore, specie se al rapporto si associ la convivenza), e la determinazione
non risulti palesemente sproporzionata per difetto od eccesso".
p.1.1. Il motivo è inammissibile, perchè non osserva il requisito di
cui all'art. 366 c.p.c., n. 6. Si fonda, infatti, là dove invoca il ricordato
principio di diritto, sulla circostanza che sarebbero state introdotte nel
giudizio di appello come fatti rilevanti per la determinazione del danno de quo
due elementi di fatto, la giovane età della ricorrente e del de cuius, da un
lato, e la convivenza, quest'ultima per il tramite della produzione di un
documento, ma in proposito:
a) si omette di indicare dove lo era stato il primo, cioè di
specificare in quale atto del giudizio di appello era avvenuta l'allegazione o
da dove dovesse comunque risultare negli atti per il giudice d'appello, sì da
poter essere considerato nella formulazione del giudizio di liquidazione
equitativa;
b) si omette, quanto al secondo sia di dire se dalla produzione si era
argomentato nel senso prospettato, cioè se si era evidenziata al livello
dell'onere di allegazione, la convivenza adducendola come elemento per quel
giudizio, sia di indicare se e dove il documento sia stato prodotto in questa
sede di legittimità.
In tal modo, risulta inosservato l'art. 366 c.p.c., n. 6, nella
lettura che ne ha dato la costante giurisprudenza delle Sezioni Unite: si
vedano Cass. sez. un. nn. 28547 del 2008 e 7161 del 2010, nonchè, per gli atti
processuali e, quindi,con riferimento alle "note", in quanto
eventualmente recanti allegazioni basate sul documento, Cass. sez. un. n. 22726
del 2011, che consente che l'indicazione specifica sia assolta per essi anche
precisando se si intenda fare riferimento al fascicolo d'ufficio della fase di
merito.
L'omissione dell'indicazione specifica appare tanto più rilevante, in
quanto la sentenza impugnata, che pure fa riferimento espresso alla
prospettazione della qui ricorrente specificandone gli assunti (pagina 15), non
fa alcun riferimento a deduzioni contenute nelle dette note e ad altri elementi
prospettati dalla medesima.
p.1.2. Il motivo, inoltre, sarebbe anche infondato, se lo si potesse
esaminare, perchè la Corte territoriale non ha fatto riferimento a quanto si
liquidava all'epoca dei fatti, risalenti al lontano dicembre del 1971, per casi
simili, ma ha combinato, con evidente personalizzazione della quantificazione,
tale criterio con quello della parentela collaterale.
Onde, la critica di inesistenza della personalizzazione e di
applicazione di quanto invece relativo a casi simili non risulterebbe
pertinente o comunque si sarebbe dovuta articolare con la specifica censura
della correttezza in iure, anche sotto il profilo del difetto di sussunzione
della concreta fattispecie, della soluzione data dalla Corte territoriale.
p.2. Con il secondo motivo si deduce "violazione e falsa
applicazione di norme di diritto (artt. 1224 c.c.) Art. 360 c.c., n. 3 - Omessa
insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della
controversia (art. 360 c.p.c., n. 5)".
Vi si sostiene che erroneamente la Corte territoriale avrebbe
riconosciuto la rivalutazione del danno non patrimoniale fino alla pronuncia da
essa resa e non invece con riferimento al successivo eventuale momento del
passaggio in giudicato della sua decisione, momento che è il solo che trasforma
il debito di valore risarcitorio in debito di valuta.
p.2.1. Il motivo, che, in realtà, pone soltanto una quaestio iuris,
non è fondato.
Giurisprudenza risalente e costante di questa Corte afferma il principio
secondo cui "nella rivalutazione dei crediti di valore, il giudice deve
tener conto del diminuito potere di acquisto verificatosi dal momento del
sorgere del credito fino al momento in cui, provvedendo alla liquidazione,
emette la sua pronuncia, senza possibilità di considerare anche eventi futuri
ed ipotetici, quali l'eventuale ritardo nell'esecuzione della sua decisione ed
il verificarsi, nel frattempo, di una svalutazione monetaria ulteriore"
(Cass. n. 5484 del 1980; in senso conforme successivamente: Cass. n. 4778 del
1982, n. 4791 del 1989, n. 11616 del 2001, n. 1256 del 1995, n. 3996 del 2001).
E' stato anche precisato che "con riguardo al debito di valore per danno
extracontrattuale che si converte in debito di valuta soggetto alle regole del
cosiddetto principio nominalistico, per effetto del suo definitivo accertamento
e della liquidazione che ne consegue, il tempo trascorso tra la decisione ed il
deposito della sentenza che provveda a detta liquidazione comporta
l'attribuzione di interessi moratori, restando il danneggiato abilitato ad
agire in separato giudizio per ottenere l'ulteriore rivalutazione del suo
credito ai sensi ed alle condizioni di cui all'art. 1224 c.c." (Cass. n.
6336 del 1985). Ed ulteriormente si è
detto che "il principio secondo cui l'obbligo di risarcimento del danno,
tanto in materia contrattuale quanto in materia extracontrattuale, costituisce
un debito di valore non è più applicabile dal passaggio in giudicato della
sentenza che provvede alla liquidazione, operandosi in tale momento la reintegrazione
della lesione patrimoniale subita dal danneggiato con la conseguente
trasformazione del debito di valore in debito di valuta e l'assoggettamento al
principio nominalistico. Pertanto, dal momento della liquidazione decorrono in
favore del creditore gli interessi sulla somma attribuitagli, ma cessa di
operare il congegno della rivalutazione come forma di adeguamento
dell'indennizzo, e può essere solo fatto valere, ma come diversa ragione di
danno, il maggior pregiudizio subito per il caso di ulteriore ritardo nel
pagamento della somma liquidata" (Cass. n. 1901 del 1983).
Ed ancora si è statuito che "il principio secondo cui l'obbligo
di risarcimento del danno, tanto in materia contrattuale quanto in materia
extracontrattuale, costituisce un debito di valore non e più applicabile dal
passaggio in giudicato della sentenza che provvede alla liquidazione,
operandosi in tale momento la reintegrazione della lesione patrimoniale subita dal
danneggiato con la conseguente trasformazione del debito di valore in debito di
valuta e l'assoggettamento al principio nominalistico. Il creditore non può,
pertanto, in un successivo giudizio, pretendere la rivalutazione automatica della
somma di denaro liquidata con precedente sentenza passata in giudicato, ma solo
pretendere il risarcimento del danno - non coperto della corresponsione degli
interessi legali - che egli dimostri di aver subito per non avere potuto tempestivamente
impiegare il denaro a causa del mancato pagamento della somma dovutagli"
(Cass. n. 3381 del 1980).
Alla ricordata giurisprudenza va data continuità, perchè la tesi
prospettata dalla ricorrente si risolverebbe in una sorta di avallo dell'idea
che, quando è dedotta in giudizio una pretesa relativa ad un'obbligazione di
valore, il giudice, oltre a dover
liquidare la somma dovuta al momento della pronuncia tenendo conto della detta
natura dell'obbligazione e,quindi, per il pieno riconoscimento della domanda,
sia tenuto a far luogo ad una condanna in futuro del tutto ipotetica, non
sapendosi se l'adempimento di quanto liquidato all'attualità avverrà
immediatamente oppure avverrà solo dopo il momento della consolidazione della
sentenza con il giudicato, la cui verificazione fra l'altro è evento incertus
an, non sapendosi se la sentenza sarà impugnata, quando ancora sia impugnabile,
come la sentenza di appello.
In sostanza, la tesi prospettata dalla ricorrente avallerebbe l'idea
di una sorta di ipotesi di automatismo secondo il quale il giudice, non solo
dovrebbe far luogo ad una condanna in futuro, al di fuori di una previsione di
legge, ma lo dovrebbe fare con riferimento ad una fattispecie di danno
ulteriore del tutto incerta, a differenza di quanto accade per la condanna - a
far tempo dalla pronuncia, nel presupposto che ormai il credito da quel momento
sia divenuto di valuta - alla corresponsione degli interessi per il caso di
mora, correttamente riconosciuto dalla sentenza impugnata.
L'eventuale danno da ritardo ulteriore nell'adempimento del dictum
della sentenza dopo la pronuncia, cioè dopo la sua pubblicazione, si iscriverà,
invece, nell'ambito dell'art. 1224, comma 2, e potrà essere, ricorrendone le
condizioni , richiesto in separato giudizio, se del caso anche monitorio. Ma,
al riguardo, non è questa la sede per soffermarsi sulla questione.
3. Con il terzo motivo è dedotta "violazione e falsa applicazione
di norme di diritto (art. 1224 c.c.) Art. 360 c.c., n. 3".
Vi si deduce la stessa doglianza di cui al motivo precedente riguardo
all'importo riconosciuto a titolo di danno da ritardato inadempimento, sulla
somma capitale liquidata per il danno non patrimoniale liquidata all'attualità:
è palese che essendo tale operazione diretta a realizzare sempre l'operazione
di liquidazione del danno correlativamente alla natura di valore
dell'obbligazione, nuovamente vengono in rilievo i principi richiamati a
proposito del motivo precedente. Da essi discende analogamente l'infondatezza
del motivo.
p.4. Con il quarto motivo si deduce "violazione e falsa
applicazione di norme di diritto (artt. 1223, 1226, 2056 e 2059 c.c.) Art. 360
c.p.c., n. 3 - Omessa insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto
decisivo della controversia (art. 360 c.p.c., n. 5)".
L'illustrazione è conclusa dal seguente quesito di diritto: "Il complesso
di norme ricavabili dagli artt. 1223, 1226, 2056 e 2059 c.c., impone che nella
valutazione equitativa del danno da ritardo, quale ristoro per la mancata
disponibilità della somma spettante a titolo di risarcimento danni, si tenga
conto di ogni elemento utile ed in particolare del tempo trascorso dall'evento
lesivo, in modo tale che non costituisca un simulacro o una parvenza di
risarcimento?".
Si tratta di un quesito che non fa comprendere in alcun modo quale sia
la quaestio iuris che sarebbe illustrata nel motivo, atteso che, per un verso
si fa generico riferimento al criterio di valutazione della considerazione di
ogni elemento utile ed in particola del tempo trascorso senza alcuna
correlazione, pur riassuntiva, con la motivazione della sentenza impugnata.
In tal modo il quesito si risolve in un interrogativo del tutto
astratto e, quindi, è inidoneo ad adempiere l'onere di cui all'ora abrogato
art. 366 bis c.p.c., perchè privo di funzione conclusiva.
L'art. 366 bis c.p.c., infatti, quando esigeva che il quesito di
diritto dovesse concludere il motivo imponeva che la sua formulazione non si
presentasse come la prospettazione di un interrogativo giuridico del tutto
sganciato dalla vicenda oggetto del procedimento, bensì evidenziasse la sua
pertinenza ad essa. Invero, se il quesito doveva concludere l'illustrazione del
motivo ed il motivo si risolve in una critica alla decisione impugnata e,
quindi, al modo in cui la vicenda dedotta in giudizio è stata decisa sul punto
oggetto dell'impugnazione e criticato dal motivo, appare evidente che il quesito,
per concludere l'illustrazione del motivo, doveva necessariamente contenere un
riferimento riassuntivo ad essa e, quindi, al suo oggetto, cioè al punto della
decisione impugnata da cui il motivo dissentiva, sì che ne risultasse evidenziato
- ancorchè succintamente - perchè l'interrogativo giuridico astratto era
giustificato in relazione alla controversia per come decisa dalla sentenza
impugnata. Un quesito che non presentava questa contenuto era, pertanto, un non
- quesito (si veda, in termini, fra le tante, Cass. sez. un. n. 26020 del 2008;
nonchè n. 6420 del 2008). E' da avvertire che l'utilizzo del criterio del
raggiungimento dello scopo per valutare se la formulazione del quesito sia idonea
all'assolvimento della sua funzione appare perfettamente giustificato dalla
soggezione di tale formulazione, costituente requisito di contenuto-forma del
ricorso per cassazione, alla disciplina delle nullità e, quindi, alla regola dell'art.
156 c.p.c., comma 2, per cui all'assolvimento del requisito non poteva bastare
la formulazione di un quesito quale che esso fosse, eventualmente anche privo
di pertinenza con il motivo, ma occorreva una formulazione idonea sul piano
funzionale, sul quale emergeva appunto il carattere della conclusività. Da
tanto l'esigenza che il quesito rispettasse i criteri innanzi indicati. Per
altro verso, la previsione della necessità del quesito come contenuto del
ricorso a pena di inammissibilità escludeva che si potesse utilizzare il
criterio di cui al terzo comma dell'art. 156 c.p.c., posto che quando il
legislatore qualifica una nullità di un certo atto come determinativa della sua
inammissibilità deve ritenersi che abbia voluto escludere che il giudice possa
apprezzare l'idoneità dell'atto al raggiungimento dello scopo sulla base di
contenuti desunti aliunde rispetto all'atto: il che escludeva che il quesito
potesse integrarsi con elementi desunti dal residuo contenuto del ricorso, atteso
che l'inammissibilità era parametrata al quesito come parte dell'atto complesso
rappresentante il ricorso, ivi compresa l'illustrazione del motivo (si veda, in
termini, già Cass. (ord.) n. 16002 del 2007; (ord.) n. 15628 del 2009, a proposito
del requisito di cui all'art. 366 c.p.c., n. 6).
E', altresì, da avvertire, che l'intervenuta abrogazione dell'art. 366
bis c.p.c. non può determinare - in presenza di una manifestazione di volontà
del legislatore che ha mantenuto ultrattiva la norma per i ricorsi proposti
dopo il 4 luglio 2009 contro provvedimenti pubblicati prima ed ha escluso la
retroattività dell'abrogazione per i ricorsi proposti antecedentemente e non
ancora decisi - l'adozione di un criterio interpretativo della stessa norma
distinto da quello che la Corte di Cassazione, quale giudice della nomofilachia
anche applicata al processo di cassazione, aveva ritenuto di adottare anche con
numerosi arresti delle Sezioni Unite. D'altro canto, nella specie, se si
procedesse alla lettura dell'illustrazione del motivo emergerebbe che in esso
si contesta sia il criterio di individuazione della base di calcolo nella
liquidazione del danno da ritardo, sia il concreto criterio di calcolo
prescelto. Il quesito avrebbe dovuto evocare entrambi gli oggetti di queste critiche,
mentre ad essi non fa alcun riferimento, sì che emergerebbe anche che il
generico ed astratto quesito proposto non è pertinente al motivo, che contesta
non che non sia stato rispettato quanto genericamente indicato dal quesito,
bensì specifici aspetti del procedimento liquidatorio. Il motivo dev'essere,
dunque, dichiarato inammissibile.
p.5. Il quinto motivo prospetta "violazione e falsa applicazione
di norme di diritto (artt. 1176, 1460 e 2236 c.c.) Art. 360 c.c. n. 3 - Omessa
insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della
controversia (art. 360 c.p.c., n. 5)".
Vi si censura il capo della sentenza impugnata, con cui la Corte
cagliaritana, in accoglimento parziale dell'appello degli eredi con cui si
lamentava che il primo giudice avesse omesso di pronunciare sulla loro domanda
riconvenzionale, intesa ad ottenere la condanna della C. al pagamento delle
competenze richieste dal de cuius per l'espletamento delle sue prestazioni, ha
considerato dovuta la somma corrispondente alle prestazioni eseguite fino alla
pronuncia, nella controversia in cui l'espletamento era avvenuto, della
sentenza che aveva dichiarato estinto il giudizio, per la irritualità della
riassunzione, in quanto avvenuta soltanto nei confronti del responsabile della causazione
del sinistro e non anche della sua società assicuratrice. Erroneamente la Corte
territoriale avrebbe ritenuto irrilevante ai fini della responsabilità professionale
del de cuius, l'errore professionale - pur da essa stessa riconosciuto -
consistente nella detta mancata notifica, reputando che rilevasse, invece, solo
quello compiuto per non avere impugnato la sentenza dichiarativa dell'estinzione
e che, dunque, l'inadempimento della prestazione fonte di responsabilità solo
nell'omissione della proposizione dell'appello si dovesse ravvisare. Ciò la
Corte territoriale ha fatto affermando che "l'errore ritenuto in questa
sede effettivamente rilevante è invece quello riconducibile alla attività
svolta successivamente alla decisione del Tribunale, in relazione alla quale
non sono stati però richiesti compensi".
Ad avviso della ricorrente l'errore compiuto dal de cuius nel
riassumere la causa non potrebbe considerarsi, viceversa, assorbito dall'errore
successivo nel non impugnare la sentenza dichiarativa dell'estinzione e ciò
perchè esso avrebbe concorso nel compromettere le ragioni della ricorrente, ove
vi fosse stata possibilità di una riforma della sentenza in appello.
Inoltre, la colpa professionale del de cuius sarebbe sussistita anche
per non avere osservato in sede di riassunzione la regola del litisconsorzio
necessario e, considerato che anche riguardo a detta prestazione era sussistito
l'inadempimento del de cuius, l'applicazione del principio inadimplenti non est
adimplendum avrebbe comportato l'esclusione della debenza del corrispettivo per
le dette prestazioni.
p.5.1. Il motivo è fondato.
Si deve, infatti, rilevare che non è corretto in iure l'assunto della
Corte territoriale, secondo cui, essendo stato compiuto l'errore professionale
che aveva cagionato il danno con la mancata impugnazione della sentenza
dichiarativa dell'estinzione, l'attività professionale pregressa non dovrebbe
essere considerata come eseguita in modo da porre il de cuius in posizione di
inadempienza, sì da doversi escludere che gli fosse dovuto il corrispettivo per
essa. Tale assunto trascura, infatti, che l'errore professionale per così dire
definitivo e fonte ultima del danno, cioè quello compiuto per la mancata
impugnazione della sentenza (ritenuto sul piano soggettivo addebitabile al de cuius
dalla Corte territoriale per la mancata informazione alla cliente sulla
possibilità di appellare la sentenza dichiarativa dell'estinzione, con punto non
più in discussione), ha prodotto la conseguenza di rendere del tutto inutile
l'attività professionale pregressa in quanto finalizzata a tutelare il diritto
fatto valere in giudizio dalla ricorrente e, quindi, ha posto il professionista
in una condizione per cui la sua prestazione, che egli era stato chiamato a
svolgere per l'assicurazione della detta tutela, si doveva ritenere totalmente
inadempiuta, perché risultava non aver prodotto alcun effetto a favore del
cliente e ciò sia dal punto di vista del risultato, se l'obbligazione dedotta
nel contratto di prestazione di opera si considerasse di risultato per la non
eccessiva difficoltà della vicenda nella quale si è concretato l'errore, sia
dal punto di vista della prestazione del mezzo della propria prestazione
d'opera, se la si considerasse come obbligazione di mezzi. Ne deriva che la
situazione determinatasi si doveva considerare di inadempimento totale anche
per le prestazioni eseguite prima della sentenza di estinzione, perchè esse
risultavano espletate inutiliter e, quindi, come se non fossero state espletate
e ciò per colpa del de cuius, consistita nell'omissione dell'impugnazione in
presenza di omessa informazione alla cliente sulla sua possibilità e nella
conseguente preclusione della tutela giurisdizionale della situazione della
ricorrente, con derivata perdita del diritto (ormai prescrittosi, stante il
venir meno dell'effetto interruttivo permanente del corso della prescrizione,
già ricollegatosi alla proposizione della domanda giudiziale). Il motivo
dev'essere accolto e, poichè non occorrono accertamenti perchè si evidenzi che
la domanda su cui il primo giudice aveva
omesso di pronunciare riguardo al corrispettivo preteso e su cui la Corte
territoriale si è pronunciata, è infondata, tale infondatezza può senz' altro
dichiararsi in questa sede.
p.4. Le spese dei due gradi del giudizio di merito vanno poste a
carico totale dei resistenti. La liquidazione resta quella operata secondo la
tariffa delle poca di espletamento e si commisura a quella ritenta dalla Corte
territoriale. Il parziale accoglimento del ricorso induce a compensare fino
alla metà le spese del giudizio di cassazione, che, dunque, vanno poste a
carico dei resistenti in misura corrispondente e si liquidano in dispositivo
con l'applicazione del D.M. n. 140 del 2012.
PQM
La Corte dichiara inammissibili il primo e il quarto motivo. Rigetta
il secondo ed il terzo. Accoglie il quinto motivo e cassa la sentenza impugnata
in relazione. Pronunciando nel merito rigetta la domanda riconvenzionale dei
resistenti. Condanna i resistenti, con distrazione delle spese a favore dei
difensori avvocati Filippo Falivene e Luigi Marcialis, alla rifusione alla
ricorrente delle spese del giudizio di primo e di secondo grado nella totalità
degli importi liquidati dalla sentenza cassata e, quindi, rispettivamente in
Euro 2.518 (di cui 680,00 per diritti di procuratore, 1.500,00 per onorari di avocato
e 218,00 per spese generali), oltre i.v.a. e c.p.a. come per legge e in Euro
3.300,00 (di cui 780,00 per diritti di procuratore, 2.220,00 per onorari di
avvocato e 300,00 per spese generali), oltre i.v.a. e c.p.a. come per legge. Condanna
i resistenti alla rifusione alla ricorrente della metà delle spese del giudizio
di cassazione, liquidate in Euro 4.000,00, di cui duecento per esborsi, e,
quindi, in Euro 2000,00 oltre accessori come per legge. Così deciso in Roma,
nella Camera di Consiglio della Sezione Terza Civile, il 23 gennaio 2013.