Corte
di Cassazione Sez. Lavoro – Sent. del 24.10.2012, n. 18211
Portiere
di notte – E’ lavoro effettivo anche se ci sono pause di
discontinuità
Corte
di Cassazione Sez. Lavoro – Sent. del 24.10.2012, n. 18211
Presidente
De Renzis – Relatore Berrino
Svolgimento
del processo
G.G.
, premesso di aver lavorato dal (…) al (…) come portiere di notte
alle dipendenze della società N. srl e di aver inutilmente chiesto
il passaggio al turno diurno a causa delle sue condizioni di salute,
convenne quest'ultima innanzi al giudice del lavoro del Tribunale di
Roma per sentirla condannare al pagamento delle differenze
retributive maturate, previa dichiarazione di illegittimità del
licenziamento intimatogli il (…), con ordine di reintegra nel posto
di lavoro. Da parte sua la N. srl propose opposizione al decreto
ingiuntivo intimatole per il pagamento dei contributi evasi in
relazione alla posizione lavorativa del G. Riunite le cause, il
giudice adito accertò la legittimità del licenziamento, dopo aver
rilevato che la società aveva altri due portieri diurni, per cui non
avrebbe potuto collocare utilmente il ricorrente nell'organico; il
giudicante ritenne, invece, fondata la sola domanda per differenze
retributive non prescritte dovute a titolo di straordinario notturno
e ferie e condannò la società al pagamento della somma di Euro
47.000 circa, oltre che a quella di Euro 25.000 per danno biologico
accertato nella misura del 15%; infine, respinse l'opposizione della
società al decreto ingiuntivo. A seguito di impugnazione principale
della società e di impugnazione incidentale del G., la Corte
d'appello di Roma, con sentenza del 18/3/08 - 23/2/09, ha respinto il
gravame proposto dalla società ed ha accolto parzialmente quello
formulato in via incidentale dall'ex dipendente, condannando la N.
srl al pagamento dell'ulteriore somma di Euro 1292,00 a titolo di
differenze retributive accertate sulla base di una nuova consulenza
tecnica d'ufficio, confermando nel resto l'appellata decisione. Per
la cassazione della sentenza propone ricorso la N. srl che affida
l'impugnazione a quattordici motivi di censura. Resiste con
controricorso l'Inps, mentre rimane solo intimato il G. La ricorrente
deposita, altresì, memoria ai sensi dell'art. 378 c.p.c.
Motivi
della decisione
1.
Col primo motivo la società ricorrente denunzia la violazione o
falsa applicazione degli artt. 1 e 3 del R.D.L. n. 692/1923, anche in
relazione all'art. 2697 c.c., sostenendo che i caratteri del lavoro
effettivo consistono nell'applicazione assidua e continuativa con
esclusione di quelle occupazioni che richiedano per la loro natura o
nella specialità del caso un lavoro discontinuo o di semplice attesa
o custodia, sicché la Corte d'appello avrebbe omesso di considerare
che la prestazione di un portiere di notte di un albergo, quale
quella svolta dal G., rientrava tra le attività che implicano
naturalmente un lavoro discontinuo, se non addirittura di semplice
attesa o custodia. La ricorrente contesta, altresì, che fosse suo
onere, come affermato dalla Corte di merito, quello di dimostrare che
la suddetta prestazione lavorativa si era tradotta nei fatti in una
sorta di mera reperibilità del dipendente. A conclusione del motivo
la ricorrente chiede di accertare se la prestazione di un portiere di
notte di albergo implichi per sua natura una prestazione discontinua
ai sensi dell'art. 3 del R.D. n. 692/1923, con conseguente onere a
carico del lavoratore di provare le modalità ed i tempi del servizio
prestato nell'arco di tempo compreso fra l'orario iniziale e quello
finale dell'attività lavorativa, in modo da consentire di tener
conto delle pause di inattività. 2. Col secondo motivo è dedotta la
carenza o contraddittorietà della motivazione su un fatto
controverso e decisivo per il giudizio, costituito dalle modalità e
dai tempi del servizio prestato dal lavoratore nell'arco di tempo fra
orario iniziale ed orario finale dell'attività lavorativa. Si
sostiene, in pratica, che la Corte d'appello non avrebbe
correttamente valorizzato gli elementi del fatto accertati in
istruttoria, che potevano condurre a ricostruire la reale portata
dell'attività prestata dal ricorrente in primo grado nell'arco
temporale del proprio turno di lavoro. Osserva la Corte che i primi
due motivi possono essere trattati congiuntamente in quanto
investono, sotto diversi aspetti, la stessa questione
dell'espletamento, da parte del G., di un lavoro discontinuo al fine
di sostenere che il medesimo non avrebbe dimostrato le modalità di
svolgimento del lavoro nel periodo intermedio tra l'inizio e la fine
del suo turno notturno, non consentendo, in tal modo, di tener conto
delle pause di inattività; nel contempo si denunzia che il giudice
d'appello non avrebbe adeguatamente valutato al riguardo gli atti
istruttori dai quali sarebbe stato possibile desumere la fondatezza
della tesi difensiva dell'avvenuta esecuzione di una prestazione
lavorativa sostanzialmente discontinua. Entrambi i motivi sono
infondati. Occorre, infatti, partire dalla considerazione che il
lavoro discontinuo, di cui all'art. 3 r.d.l. n. 692 del 1923, è
caratterizzato da attese non lavorate, durante le quali il dipendente
può reintegrare con pause di riposo le energie psicofisiche
consumate, e che l'espletamento di lavoro straordinario è
configurabile non solo ove sia convenzionalmente fissato un orario di
lavoro e siano provate, anche in via presuntiva ed indiziaria, le
modalità ed i tempi del servizio prestato nell'arco di tempo
compreso tra l'orario iniziale e quello finale dell'attività
lavorativa, così da tenere conto delle pause di inattività, ma
anche allorquando l'attività lavorativa prestata dal dipendente
oltre il limite dell'orario massimo legale, non operante nei suoi
confronti, sia, alla stregua del concreto svolgimento del rapporto di
lavoro, irrazionale e pregiudizievole del bene dell'integrità fisica
del lavoratore stesso (v. in tal senso Cass. sez. lav. n. 5049 del
26/02/2008 e Cass. sez. lav. n. 1173 del 19/01/2009). Si è, infatti,
affermato (Cass. Sez. Lav. n. 21695 del 14/08/2008) che "il
principio di ragionevolezza, in base al quale l'orario di lavoro deve
comunque rispettare i limiti imposti dalla tutela del diritto alla
salute, si applica anche alle mansioni discontinue o di semplice
attesa per le quali la variabilità, caso per caso, della loro
onerosità - che dipende dalla intensità e dalla natura della
prestazione ed è diversa a seconda che questa sia continuativa,
anche se di semplice attesa, o discontinua - impedisce una
limitazione dell'orario in via generale da parte del legislatore. La
valutazione in ordine al superamento, in concreto, del suddetto
limite, spetta al giudice del merito ed è incensurabile in sede di
legittimità se assistita da motivazione logica e sufficiente. (Nella
specie, la S.C., nel rigettare il ricorso, ha confermato la sentenza
di merito che aveva ritenuto in contrasto con il principio di
ragionevolezza la prestazione di un autista di autotreni, impegnato,
con brevi intervalli di attesa tra un’attività e l'altra, nel
trasporto e nel carico e scarico della merce, con un orario di lavoro
di 16 ore al giorno per quattro giorni alla settimana)." (in
senso conforme v. Cass. sez. tav. n. 10542 del 3/7/2003) Quanto
all'incidenza della temporanea inattività nella determinazione della
durata dell'orario di lavoro nelle ipotesi di lavoro discontinuo si è
avuto modo di statuire (Cass. Sez. Lav. n. 5023 del 2/3/2009) che "il
criterio distintivo tra riposo intermedio, non computabile ai fini
della determinazione della durata del lavoro, e semplice temporanea
inattività, computabile, invece, a tali fini, e che trova
applicazione anche nel lavoro discontinuo, consiste nella diversa
condizione in cui si trova il lavoratore, il quale, nel primo caso,
può disporre liberamente di se stesso per un certo periodo di tempo
anche se è costretto a rimanere nella sede del lavoro o a subire una
qualche limitazione, mentre, nel secondo, pur restando inoperoso, è
obbligato a tenere costantemente disponibile la propria forza di
lavoro per ogni richiesta o necessità. (Nella specie si è escluso
che fossero periodi di riposo intermedi quelli durante i quali, nel
corso di un viaggio, l'autista di un autotreno, sprovvisto di cabina,
lascia la guida al compagno, trattandosi, in tal caso, non di un
periodo di riposo intermedio vero e proprio, bensì di semplice
temporanea inattività). Orbene, nella fattispecie la Corte di merito
ha fatto corretta applicazione dei suddetti principi dopo aver
verificato, all'esito dell'esame delle deposizioni testimoniali,
adeguatamente valutate con argomentazioni immuni da vizi di carattere
logico-giuridico, che era risultato provato lo svolgimento
dell'orario indicato in ricorso, cioè dalle ore 21,00 alle ore 9,00
del mattino seguente e che era stato, altresì, dimostrato che
durante tale turno il G. era addetto, quale portiere notturno, alla
ricezione ed all'accoglienza dei clienti, oltre che alla custodia dei
valori in cassaforte, mettendo completamente a disposizione della
datrice di lavoro le proprie energie lavorative anche nei momenti di
minor traffico, per cui le stesse non potevano non essere considerate
effettive, con la conseguenza che era risultato lo svolgimento di un
orario di lavoro superiore a quello ordinario, tale da dover essere
remunerato come straordinario. Inoltre, la Corte d'appello ha
adeguatamente valutato il superamento del limite della ragionevolezza
della durata giornaliera dell'orario di lavoro ai fini che qui
interessano, avendo appurato che la N. non poteva ignorare il fatto
che i ritmi lavorativi del G. erano stati caratterizzati da turni
notturni di dodici ore per molti anni ed ha spiegato di aver tenuto
conto delle deposizioni di tutti i testi, alcuni dei quali avevano
ammesso di aver visto il G. all'inizio del turno ed altri alla fine,
con la conseguenza che dalle deposizioni complessivamente valutate
erano stati provati gli elementi di fatto posti a fondamento della
domanda. Pertanto, le critiche alla valutazione del materiale
probatorio si traducono in un inammissibile tentativo di
rivisitazione del merito delle risultanze testimoniali che non è
consentito nel giudizio di legittimità. Non va, infatti, dimenticato
che "in tema di giudizio di cassazione, la deduzione di un vizio
di motivazione della sentenza impugnata conferisce al giudice di
legittimità non il potere di riesaminare il merito della intera
vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì la sola facoltà
di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della
coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del
merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare
le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove,
di controllarne l'attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra
le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente
idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando,
così, liberamente prevalenza all'uno o all'altro dei mezzi di prova
acquisiti (salvo i casi tassativamente previsti dalla legge).
Conseguentemente, per potersi configurare il vizio di motivazione su
un asserito punto decisivo della controversia, è necessario un
rapporto di causalità fra la circostanza che si assume trascurata e
la soluzione giuridica data alla controversia, tale da far ritenere
che quella circostanza, se fosse stata considerata, avrebbe portato
ad una diversa soluzione della vertenza. Pertanto, il mancato esame
di elementi probatori, contrastanti con quelli posti a fondamento
della pronunzia, costituisce vizio di omesso esame di un punto
decisivo solo se le risultanze processuali non esaminate siano tali
da invalidare, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità,
l'efficacia probatoria delle altre risultanze sulle quali il
convincimento è fondato, onde la "ratio decidendi" venga a
trovarsi priva di base. (Nella specie la S.C. ha ritenuto
inammissibile il motivo di ricorso in quanto che la ricorrente si era
limitata a riproporre le proprie tesi sulla valutazione delle prove
acquisite senza addurre argomentazioni idonee ad inficiare la
motivazione della sentenza impugnata, peraltro esente da lacune o
vizi logici determinanti)." (Cass. Sez. 3 n. 9368 del 21/4/2006;
in senso conf. v. anche Cass. sez. lav. n. 15355 del 9/8/04).
3.
Col terzo motivo è dedotta la violazione o falsa applicazione degli
artt. 2109 e 2110 c.c., adducendosi, in relazione alla contestata
decisione del riconoscimento dell'indennità sostitutiva delle ferie
non godute in corrispondenza del periodo di congedo per malattia, che
la Corte d'appello, pur avendo motivato in ordine alla patologia
dalla quale era affetto il G. ed al nesso eziologico tra lo "stress"
subito e l'attività lavorativa svolta, tuttavia non avrebbe
considerato se esisteva realmente una incompatibilità tra la
malattia ed il godimento delle ferie. 4. Col quarto motivo la
ricorrente deduce la carenza o contraddittorietà della motivazione
in relazione ad un fatto controverso e decisivo per il giudizio
consistente nella sussistenza o meno di una incompatibilità tra
stato di malattia del lavoratore e fruizione delle ferie. In sostanza
viene riproposta la stessa questione di cui al precedente motivo n.
3, seppur sotto la diversa prospettazione dell'asserita esistenza di
un vizio motivazionale, in quanto a giudizio della ricorrente la
Corte d'appello avrebbe trascurato di verificare se lo stato
patologico denunziato dal lavoratore era di natura tale da non
consentirgli egualmente la fruizione delle ferie. 5. Col quinto
motivo si segnala la carenza di motivazione su fatti controversi e
decisivi per il giudizio consistenti nella pretesa maturazione delle
ferie per il periodo di aspettativa richiesto dal lavoratore, nonché
sull'indennità sostitutiva delle ferie. Anche in tal caso è
riproposta la questione di fondo di cui al terzo motivo, seppur sotto
il diverso aspetto della omessa motivazione in ordine alla eccezione
di insussistenza di una maturazione dell'indennità sostitutiva delle
ferie durante il periodo di aspettativa richiesto dal lavoratore,
oltre che in merito alla eccezione della insussistenza del diritto
alla maturazione delle ferie rispetto al diverso istituto indiretto
dell'indennità sostitutiva del preavviso. 6. Col sesto motivo è
denunziata la violazione o falsa applicazione dell'art. 112 c.p.c. e
viene formulato il seguente quesito di diritto: "Dica la suprema
Corte, con riferimento ad un motivo di appello con il quale si
contesti la sentenza di primo grado per non avere considerato che
l'indennità sostitutiva delle ferie non godute non può spettare per
un periodo di aspettativa richiesto dal lavoratore sull'indennità
sostitutiva del preavviso, se violi o applichi falsamente al caso di
specie l'art. 112 c.p.c. la sentenza d'appello che ometta di
pronunciarsi sul punto".7. Col settimo motivo è dedotta la
nullità della sentenza o del procedimento ed è posto il seguente
quesito di diritto: "Dica la suprema Corte, con riferimento ad
un motivo di appello con il quale si contesti la sentenza di primo
grado per non avere considerato che l'indennità sostitutiva delle
ferie non godute non può spettare per un periodo di aspettativa
richiesto dal lavoratore sull'indennità sostitutiva del preavviso,
se sia affetta da nullità la sentenza d'appello che ometta di
pronunciarsi sul punto". Osserva la Corte che il terzo, il
quarto, il quinto, il sesto ed il settimo motivo possono essere
trattati congiuntamente in quanto sottopongono alla disamina della
Corte l'identica questione, seppur sotto i diversi profili del vizio
di violazione di legge e di quello della motivazione, del diritto al
riconoscimento della indennità sostitutiva per ferie in coincidenza
col periodo di aspettativa per malattia e dell'incidenza o meno delle
ferie non godute sull'indennità sostitutiva di preavviso. Tali
motivi sono infondati.
Anzitutto,
con argomentazione congruamente motivata ed immune da vizi di
carattere logico-giuridico, la Corte d'appello ha spiegato che la
consulenza tecnica d'ufficio, accuratamente eseguita sulla persona
del periziando e sulla scorta delle certificazioni mediche non
smentite, aveva consentito di accertare l'esistenza della patologia
dalla quale era affetto il G., vale a dire il "disturbo
depressivo ansioso cronico quale evoluzione di un disturbo
dall'adattamento reattivo a situazione occupazionale stressante",
oltre che la sussistenza del nesso causale fra tale patologia e lo
"stress" generato dall'attività lavorativa dal medesimo
svolta, per cui la stessa Corte è pervenuta al convincimento che non
vi erano dubbi sul fatto che il mancato godimento del periodo di
ferie era dipeso dalla fruizione del congedo per la riscontrata
malattia, con la conseguenza che non poteva non competergli
l'indennità sostitutiva per ferie non godute. Si rivelano, pertanto,
infondate le censure di cui al quarto e quinto motivo del ricorso
attraverso le quali la ricorrente tenta di accreditare la tesi della
presunta compatibilità, a suo dire non vagliata dai giudici
d'appello, tra stato di malattia del lavoratore e fruizione delle
ferie. In realtà, il principio da superare è, all'opposto, quello
di incompatibilità tra godimento delle ferie e stato di malattia ed
un tale onere non può che gravare sul datore di lavoro una volta che
lo stato di malattia impeditivo del godimento delle ferie gli sia
stato comunicato dal dipendente e lo stesso sia stato accertato, per
cui sotto tale aspetto è destituita di fondamento la censura di cui
al terzo motivo attraverso la quale si prospetta l'esistenza di un
onere a carico del lavoratore per la dimostrazione della
incompatibilità tra malattia denunziata e ferie da usufruire. A tal
proposito le Sezioni Unite di questa Corte hanno già avuto in
passato modo di statuire (Cass. sez. un. n. 1947 del 23/2/1998) che
"con riguardo alla malattia del lavoratore subordinato insorta
durante il periodo di godimento delle ferie, il principio
dell'effetto sospensivo di detto periodo, enunciato dalla Corte
costituzionale nella sentenza n. 616 del 1987 e chiarito dalla stessa
Corte con la sentenza n. 297 del 1990, non ha valore assoluto, ma
tollera eccezioni, per l'individuazione delle quali occorre aver
riguardo alla specificità degli stati morbosi denunciati e alla loro
incompatibilità con l'essenziale funzione di riposo, recupero delle
energie psicofisiche e ricreazione, propria delle ferie. Consegue che
l'avviso, comunicato dal lavoratore, del suo stato di malattia, sul
presupposto della sua incompatibilità con le finalità delle ferie,
determina - dalla data della conoscenza di esso da parte del datore
di lavoro - la conversione dell'assenza per ferie in assenza per
malattia, salvo che il datore medesimo non provi l'infondatezza di
detto presupposto allegando la compatibilità della malattia con il
godimento delle ferie; sicché in tal caso il giudice del merito deve
valutare il sostanziale ed apprezzabile pregiudizio anche temporale
che la malattia arrechi alle ferie ed al beneficio che ne deve
derivare in riferimento alla natura e all'entità dello stato
morboso". In applicazione di tale principio si è anche
affermato (Cass. sez. lav. n. 15768 del 14/12/2000) che "il
principio della sospensione delle ferie per malattia insorta durante
il relativo periodo, stabilito dalla Corte costituzionale con
sentenza n. 616 del 1987, opera ogni qualvolta la fruizione delle
ferie risulti pregiudicata in concreto dalla malattia (spettando al
datore di lavoro, una volta che la malattia sia stata certificata,
l'onere di provare l'inesistenza di tale pregiudizio); pertanto, deve
ritenersi in contrasto con tale principio la regolamentazione
collettiva (nella specie, art. 24 c.c.n.l. "industria vetro"
1990) che aggancia l'effetto sospensivo o meno della malattia alla
sua durata, in quanto, pur non esistendo nel nostro ordinamento una
definizione unitaria di malattia, sicuramente la durata superiore o
inferiore ad un determinato numero di giorni non vale a costituire un
corretto criterio per stabilire se la malattia denunciata sia o meno
compatibile con il godimento delle ferie". Quanto al sesto e
settimo motivo, attraverso i quali è lamentata l'omessa pronunzia in
merito alle eccezioni con le quali si era dedotto che l'indennità
sostitutiva delle ferie non maturava in costanza dell'aspettativa
richiesta dal lavoratore e che nemmeno poteva tenersene conto ai fini
dell'indennità sostitutiva del preavviso, si osserva quanto segue:
anzitutto non è ravvisabile la denunziata omissione di pronunzia,
avendo i giudici d'appello affermato che l'indennità sostitutiva per
ferie spettava in relazione al loro mancato godimento, a sua volta
determinato dal congedo per malattia regolarmente accertata. Per quel
che riguarda, invece, l'ulteriore eccezione attinente alla contestata
maturazione delle ferie sull'indennità di preavviso, di cui è
lamentata l'omessa disamina, è da rilevare che la ricorrente non
spiega, in ossequio al principio della autosufficienza, i termini
esatti della questione sollevata nel giudizio d'appello, in quanto,
nel riportarla, afferma testualmente ed in maniera generica quanto
segue: "Ma stando al dispositivo la condanna al pagamento delle
ferie sembrerebbe limitata ai sei mesi di malattia e ai due mesi di
preavviso. E qui va osservato che il preavviso non è stato
effettuato ed è stata erogata l'indennità sostitutiva sulla quale
non maturano le ferie." Come è dato vedere è la medesima
ricorrente a porre in dubbio il presupposto della questione
sollevata, vale a dire che la condanna comprendesse pure due mesi di
preavviso e non la sola indennità sostitutiva per ferie non godute.
In ogni caso è bene ricordare che questa Corte ha di recente
evidenziato (Cass. sez. lav. n. 11462 del 9/7/2012) che " in
relazione al carattere irrinunciabile del diritto alle ferie,
garantito anche dall'art. 36 Cost. e dall'art. 7 della direttiva
2003/88/CE (v. la sentenza 20 gennaio 2009 nei procedimenti riuniti
c-350/06 e c-520/06 della Corte di giustizia dell'Unione Europea),
ove in concreto le ferie non siano effettivamente fruite, anche senza
responsabilità del datore di lavoro, spetta al lavoratore
l'indennità sostitutiva che ha, per un verso, carattere
risarcitorio, in quanto idonea a compensare il danno costituito dalla
perdita di un bene (il riposo con recupero delle energie
psicofisiche, la possibilità di meglio dedicarsi a relazioni
familiari e sociali, l'opportunità di svolgere attività ricreative
e simili) al cui soddisfacimento l'istituto delle ferie è destinato
e, per altro verso, costituisce erogazione di indubbia natura
retributiva, perché non solo è connessa al sinallagma
caratterizzante il rapporto di lavoro, quale rapporto a prestazioni
corrispettive, ma più specificamente rappresenta il corrispettivo
dell'attività lavorativa resa in periodo che, pur essendo di per sé
retribuito, avrebbe invece dovuto essere non lavorato perché
destinato al godimento delle ferie annuali, restando indifferente
l'eventuale responsabilità del datore di lavoro per il mancato
godimento delle stesse. Ne consegue l'illegittimità, per contrasto
con norme imperative, delle disposizioni dei contratti collettivi che
escludano il diritto del lavoratore all'equivalente economico di
periodi di ferie non goduti al momento della risoluzione del
rapporto, salva l'ipotesi del lavoratore che abbia disattesa la
specifica offerta della fruizione del periodo di ferie da parte del
datore di lavoro. (Nella specie, relativa ad impossibilità del
lavoratore di fruire delle ferie in ragione del suo stato di malattia
cui è seguita la risoluzione del rapporto, la S.C., nell'affermare
il principi su esteso, ha cassato la sentenza impugnata, che aveva
escluso il diritto del lavoratore sulla base dell'art. 19, commi 8 e
15, del c.c.n.l. scuola per il quadriennio normativo 1994-1997, che
subordina il diritto all'indennità sostitutiva alla mancata
fruizione per esigenze di servizio). 8. Con l'ottavo motivo è
denunziata la violazione o falsa applicazione dell'art. 2087 c.c.,
anche in relazione agli artt. 2697 c.c. e 1218 c.c., in ordine alla
contestata condanna al pagamento del danno biologico ritenuto
sussistente dalla Corte di merito sulla base della individuata
responsabilità datoriale ai sensi dell'art. 2087 c.c.. Viene,
quindi, posto il seguente quesito di diritto: "Dica la suprema
Corte, con riferimento ad un'ipotesi di pretesa responsabilità del
datore di lavoro ex art. 2087 c.c. se integri violazione o falsa
applicazione di quest'ultima disposizione, anche in relazione
all'art. 2697 c.c., la sentenza della Corte d'appello che,
qualificata come oggettiva la responsabilità datoriale, ometta di
verificare se il lavoratore abbia dedotto e provato l'esistenza di un
rapporto di causalità tra la mancata adozione di determinate misure
di sicurezza, generiche o specifiche, ed il danno lamentato." 9.
Col nono motivo la ricorrente si duole della carenza di motivazione
su un fatto controverso e decisivo per il giudizio, consistente nella
esistenza, o meno, di un rapporto di causalità, in una fattispecie
di asserita responsabilità del datore di lavoro ex art. 2087 c.c.,
tra la mancata adozione di determinate misure di sicurezza, generiche
o specifiche, ed il danno lamentato. In pratica ci si lamenta del
fatto che la Corte territoriale avrebbe dovuto individuare una
condotta alternativa, sulla base di regole tecniche o di esperienza,
tale che se la stessa fosse stata adottata dalla parte datoriale, il
lavoratore sarebbe stato immune da qualsiasi danno, per cui l'assenza
di tale accertamento trasforma in responsabilità oggettiva quella
individuata in capo alla datrice di lavoro, con conseguente
manifestazione del denunziato vizio motivazionale. L'ottavo ed il
nono motivo possono essere esaminati congiuntamente in quanto con
essi è posta all'attenzione della Corte la stessa questione
dell'accertamento della responsabilità della datrice di lavoro in
ordine alla determinazione del danno biologico riconosciuto al G. ed
alla asserita insussistenza della prova del nesso di causalità tra
la mancata adozione di determinate misure di sicurezza, generiche o
specifiche, ed il danno lamentato. Entrambi i motivi sono infondati.
Invero, i giudici d'appello hanno solo posto in risalto che
l'interpretazione giurisprudenziale della norma di cui all'art. 2087
c.c. tenderebbe, a loro giudizio, alla configurazione di una sorta di
responsabilità oggettiva imprenditoriale, mentre ciò che in realtà
rileva è che, al di là della condivisione o meno di un determinato
orientamento, i medesimi giudici hanno correttamente evidenziato che
in ogni caso non può non sussistere un generale dovere di protezione
del datore di lavoro nei confronti del prestatore di lavoro, dovere
che, secondo il loro convincimento adeguatamente motivato, non è
risultato essere stato ottemperato nella fattispecie. Infatti,
nell'impugnata sentenza è stato specificatamente osservato che la
società N. aveva imposto al G. ritmi lavorativi gravosi,
caratterizzati da turni notturni di dodici ore per molti anni, come
tali incidenti sull'equilibrio psico-fisico del medesimo, la qual
cosa, alla luce della puntuale relazione medico-legale disposta
d'ufficio ed attentamente vagliata, era assunta a vera e propria
concausa della accertata sindrome nevrotica depressiva ansiosa a
carico dell'ex dipendente, per cui era irrilevante che quest'ultimo
non avesse mai contestato l'orario di lavoro durante lo svolgimento
del rapporto e che avesse rivendicato il risarcimento del danno solo
a seguito del licenziamento. In effetti, precisato che la
responsabilità del datore di lavoro per inadempimento dell'obbligo
di prevenzione di cui all'art. 2087 cod. civ. non è una
responsabilità oggettiva, essendone elemento costitutivo la colpa,
quale difetto di diligenza nella predisposizione delle misure idonee
a prevenire ragioni di danno per il lavoratore, va anche chiarito che
il predetto obbligo di prevenzione impone all'imprenditore di
adottare non soltanto le misure tassativamente prescritte dalla legge
in relazione al tipo di attività esercitata, che rappresentano lo
standard minimale fissato dal legislatore per la tutela della
sicurezza del lavoratore, ma anche le altre misure richieste in
concreto dalla specificità del rischio, atteso che la sicurezza del
lavoratore è un bene protetto dall'art. 41, secondo comma, Cost. (in
tal senso v. da ultimo Cass. sez. lav. n. 6337 del 23/4/2012). 10.
Col decimo motivo è denunziata la violazione o falsa applicazione
dell'art. 2697 c.c., anche in relazione agli artt. 2699 c.c. e 2700
c.c., in quanto si sostiene che ai fini dell'accertamento della
fondatezza del credito contributivo preteso dall'Inps in sede di
opposizione a decreto ingiuntivo, relativamente allo straordinario
che avrebbe svolto il G. , la Corte d'appello aveva erroneamente
considerato l'utilizzabilità, sia pure in concorso con altri
elementi istruttori, della prova desumibile dal verbale redatto dagli
ispettori dell'ente previdenziale, senza considerare che tale verbale
poteva far fede per quello che gli ispettori avevano direttamente
constatato, ma non dei fatti da essi riportati, che dovevano essere
sottoposti al vaglio probatorio. 11. Con l'undicesimo motivo la
ricorrente censura la sentenza per carenza di motivazione su un fatto
controverso e decisivo per il giudizio, consistente nella dedotta
insussistenza di ulteriori titoli a base della pretesa monitoria
dell'Inps. In particolare viene segnalata l'omessa motivazione in
ordine alla dedotta natura autonoma dei rapporti di lavoro ritenuti
subordinati dall'Inps a seguito di ispezione, alla eccezione di
prescrizione del credito contributivo vantato dall'istituto
previdenziale ed all'entità delle sanzioni applicate, ritenute dalla
ricorrente eccessive. 12. Col dodicesimo motivo ci si duole della
violazione o falsa applicazione dell'art. 112 cpc. in quanto si
adduce che la Corte d'appello ha omesso di pronunziarsi in ordine
alle altre eccezioni sollevate nel giudizio di opposizione al decreto
ingiuntivo, quali quelle della insussistenza dei presupposti per il
riconoscimento degli ulteriori titoli vantati dall'Inps, della
prescrizione e della riduzione delle sanzioni. 13. Col tredicesimo
motivo è denunziata la nullità della sentenza per omessa pronuncia
su questioni prospettate in sede di appello, vale a dire le stesse
indicate nei precedenti motivi n. 11 e n. 12. In pratica, coi motivi
esposti dal numero dieci al tredici la società pone in evidenza la
stessa questione della mancanza dei presupposti legittimanti l'azione
monitoria dell'Inps, ritenuti erroneamente sussistenti da parte dei
giudici d'appello, nonché l'omessa pronunzia su alcune eccezioni
(prescrizione quinquennale e riduzione delle sanzioni irrogate)
riproposte in secondo grado, per cui tali motivi possono essere
esaminati congiuntamente. Tali motivi sono infondati. Invero,
correttamente il giudice d'appello ha spiegato che i verbali
ispettivi potevano ritenersi adeguatamente completati dalle
deposizioni testimoniali che avevano consentito di accertare
l'effettivo svolgimento del lavoro straordinario da parte del G. ,
per cui non è fondata l'affermazione della ricorrente secondo la
quale la Corte di merito avrebbe dato esclusivo rilievo al contenuto
dei predetti verbali. Quanto alle eccezioni della prescrizione
quinquennale e della riduzione delle sanzioni, eccezioni che la
ricorrente sostiene di aver riproposto in appello a causa del loro
rigetto da parte del primo giudice, non può ritenersi che ricorra
un'ipotesi di omessa pronunzia, avendo la Corte d'appello confermato
nel resto l'impugnata sentenza, vale a dire anche la parte della
stessa attraverso la quale era stato deciso il rigetto delle predette
eccezioni, per cui si è in presenza di un implicito rigetto dei
relativi motivi d'appello.
Quindi,
dalla statuizione di conferma nel resto della gravata sentenza di
primo grado si deduce l'esistenza di un implicito rigetto di queste
ultime questioni nella sede del giudizio d'appello.
Si
è, infatti, affermato (Cass. Sez. 3, n. 19131 del 23/9/2004) che
"non è configurabile il vizio di omessa pronuncia (art. 112,
cod. proc. civ.) quando una domanda non espressamente esaminata debba
ritenersi rigettata - sia pure con pronuncia implicita - in quanto
indissolubilmente avvinta ad altra domanda che ne costituisce il
presupposto e il necessario antecedente logico - giuridico, che sia
stata decisa e rigettata dal giudice".Nello stesso senso si è
precisato (Cass. Sez. 2, n. 10001 del 24/6/2003) che "qualora
ricorrano gli estremi di una reiezione implicita della pretesa o
della deduzione difensiva ovvero di un loro assorbimento in altre
declaratorie non è configurabile il vizio di omessa pronuncia di cui
all'art. 112 cod. proc. civ., che si riscontra soltanto allorché
manchi una decisione in ordine a una domanda a o a un assunto che
renda necessaria una statuizione di accoglimento o di rigetto".14.
Con l'ultimo motivo la ricorrente censura la sentenza per carenza o
contraddittorietà della motivazione su un fatto controverso e
decisivo per il giudizio costituito dalla pretesa patologia del G ,
in quanto, a suo dire, la Corte avrebbe recepito integralmente le
risultanze della consulenza tecnica d'ufficio, ignorando le deduzioni
critiche della propria difesa basate sulla consulenza tecnica di
parte. Il motivo è infondato, in quanto la ricorrente limita il
contenuto della presente censura ad un mero dissenso diagnostico
rispetto alle conclusioni cui è pervenuta la Corte territoriale
sulla base delle risultanze peritali adeguatamente valutate,
risultanze che l'hanno indotta a ritenere che sussisteva nella
fattispecie la lamentata patologia e che era stato accertato che i
gravosi turni di lavoro notturno protratti nel tempo avevano assunto
il ruolo di concausa della stessa, in guisa tale da far sorgere i
presupposti per il riconoscimento del danno biologico richiesto dal
lavoratore. Invero, premesso che l'impugnazione è proposta per un
presunto vizio motivazionale della sentenza, va ricordato che la
valutazione espressa dal giudice di merito in ordine alla obbiettiva
esistenza delle infermità, alla loro natura ed entità, nonché alla
loro dipendenza dall'attività lavorativa svolta costituisce tipico
accertamento di fatto incensurabile in sede di legittimità quando è
sorretto, come nella fattispecie, da motivazione immune da vizi
logici e giuridici che consenta di identificare l'iter argomentativo
posto a fondamento della decisione.
In
effetti, allorquando il giudice di merito fondi, come nel caso in
esame, la sua decisione sulle conclusioni del consulente tecnico
d'ufficio, facendole proprie, perché i lamentati errori e lacune
della consulenza determinino un vizio di motivazione della sentenza
di merito, censurabile in sede di legittimità, è necessario che
essi siano la conseguenza di errori dovuti alla documentata devianza
dai canoni della scienza medica o di omissione degli accertamenti
strumentali e diagnostiche dai quali non si possa prescindere per la
formulazione di una corretta diagnosi.
Orbene,
sotto questo specifico aspetto, non è sufficiente, per la
sussistenza del vizio di motivazione, la mera prospettazione di una
semplice difformità tra le valutazioni del perito d'ufficio e quella
della parte circa l'entità e l'incidenza del dato patologico, poiché
in mancanza degli errori e delle omissioni sopra specificate le
censure di difetto di motivazione costituiscono un mero dissenso
diagnostico non attinente a vizi del processo logico e si traducono
in una inammissibile richiesta di revisione dei merito del
convincimento del giudice (cfr. tra le tante Cass. n. 7341/2004).
Il
ricorso va, pertanto, rigettato. Le spese del presente giudizio
seguono la soccombenza della ricorrente e vanno liquidate come da
dispositivo in favore dell'Inps, mentre alcuna statuizione va in tal
senso adottata nei riguardi del G., atteso che quest'ultimo è
rimasto solo intimato.
P.Q.M.
La
Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente alle spese del
presente giudizio nei confronti dell'Inps in Euro 7000,00 per
compensi professionali ed Euro 40,00 per esborsi, oltre IVA e CPA ai
sensi di legge. Nulla per le spese nei confronti di G.G. .
Depositata
in Cancelleria il 24.10.2012