Cassazione
civile del 19 marzo 2012, n. 4321
Svolgimento
del processo
U.
J., dirigente della società I. p.a., venne licenziato in tronco da
quest'ultima in data 4 maggio 1999. Dopo aver ottenuto la
declaratoria di ingiustificatezza del recesso, e la condanna della
società al pagamento dell'importo inerente l'indennità
supplementare, di mancato preavviso, trattamento di fine rapporto e
stipendi non corrisposti, lo J. si è nuovamente rivolto all'autorità
giudiziaria per sentir condannare la ex datrice di lavoro al
risarcimento dei danni patrimoniali, morali e biologico, conseguiti
"durante e per causa di lavoro svolto in I.", e per vedersi
corrispondere gli indennizzi e le retribuzioni spettanti a norma del
c.c.n.l., nonché risarcire i danni conseguenti l'illegittimo
licenziamento patito.
Il
primo giudice dichiarò improponibili tutte le domande risarcitorie
riconducibili alla ritenuta illegittimità del licenziamento, dal
momento che nel precedente giudizio era stata definitivamente
statuita la spettanza dell'indennità supplementare e di quella
sostitutiva del preavviso, con esse esaurendosi tutte le possibili
conseguenze riconducibili all'atto espulsivo.
Per
ciò che concerneva le pretese relative ai danni "di ogni
natura" riportati a causa di comportamenti asseritamente
vessatori posti in essere dalla ex datrice di lavoro, il primo
giudice, evidenziato che secondo le prospettazioni attoree tali
comportamenti sarebbero consistiti negli atteggiamenti tenuti dai
responsabili della società in due sole riunioni, svoltesi nel marzo
1999, nel corso delle quali lo J. era stato accusato di avere assunto
decisioni sbagliate e dannose per l'andamento della società;
ritenuto che il mobbing, di cui, seppure implicitamente, egli
prospettava di essere stato vittima, presupponeva la ripetitività
delle azioni e l'estensione dei comportamenti vessatori per un arco
temporale di una certa rilevanza; ritenuto che non era stata prodotta
certificazione medica attestante la riconducibilità della patologia
a tali asserite vessazioni; valutata altresì la documentazione
I.N.P.S. relativa all'assegno di invalidità riconosciutogli -ove si
escludeva l'esistenza di un nesso causale con l'attività lavorativa-
respingeva la domanda.
Proponeva
appello lo J., evidenziando che la sua domanda era basata sulla
violazione degli artt. 2043 e 2087 c.c., e non sul ritenuto mobbing.
La
Corte d'appello di Torino, con sentenza depositata il 27 luglio 2009,
ritenuto che la domanda del lavoratore era basata sul precetto di cui
all'art. 2087 c.c., non caratterizzato dai requisiti individuati
dalla giurisprudenza per la configurazione del cd. mobbing; espletata
c.t.u. medico legale, riconosceva allo stesso un danno da invalidità
temporanea causato dal comportamento della datrice di lavoro, che
condannava al pagamento di €.14.140,00, con rivalutazione monetaria
ed interessi dalla data della decisione.
Per
la cassazione di tale sentenza ricorre la l. s.r.l., con ricorso
affidato a tre motivi, poi illustrati con memoria.
Resiste
lo J. con controricorso contenente ricorso incidentale, affidato a
cinque motivi.
Resiste
la società con controricorso, mentre la F. S. s.p.a. è rimasta
intimata.
Motivi
della decisione
I
ricorsi avverso la medesima sentenza debbono riunirsi ai sensi
dell'art. 335 c.p.c..
Con
il primo motivo la ricorrente principale denuncia violazione e falsa
applicazione degli artt. 112 e 345 c.p.c. nonché dei contratti ed
accordi collettivi nazionali di lavoro, ed inoltre omessa,
insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto
controverso e decisivo per il giudizio.
Lamenta
la società I. che la corte territoriale, accogliendo la
prospettazione dello J., affermò erroneamente che la sua domanda era
basata sulla violazione degli artt. 2043 e 2087 c.c. e non già sul
dedotto, sin dal primo grado, mobbing, introducendo così
illegittimamente una domanda sostanzialmente nuova.
Il
motivo è infondato.
Premesso
che non risulta esposto alcun vizio motivazionale della sentenza, né
viene indicata alcuna violazione di norme collettive (risultando così
buona parte del motivo inconferente), questa Corte ha più volte
affermato che l'illecito del datore di lavoro nei confronti del
lavoratore consistente nell'osservanza di una condotta protratta nel
tempo e finalizzata all'emarginazione del dipendente (cd. "mobbing"),
rappresenta una violazione dell'obbligo di sicurezza posto a carico
dello stesso datore dall'art. 2087 cod. civ. (Cass. 9 settembre 2008
n. 22858, Cass. 6 marzo 2006 n. 4774), sicché nella specie non
risulta ammessa ed esaminata alcuna domanda nuova (cfr. sul punto,
Cass. 17 giugno 2011 n. 13356).
Con
il secondo motivo la I. denuncia la violazione o falsa applicazione
dell'art. 2087 c.c., nonché dei contratti ed accordi collettivi
nazionali di lavoro, ed inoltre omessa, insufficiente e/o
contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per
il giudizio.
Lamenta
la società che seppure il ed. mobbing può trovare fondamento
nell'art. 2087 c.c., tale norma presuppone pur sempre una
responsabilità del datore di lavoro, che nella specie era difficile
ravvisare nei due singoli episodi evidenziati dalla corte
territoriale, ove lo J., dirigente e certamente uso alla dialettica
interpersonale, avrebbe subito uno stress a causa di divergenze sui
risultati aziendali.
Evidenziava
che il datore di lavoro non potrebbe essere chiamato a rispondere di
ogni ipotesi di stress avvertito dal lavoratore per il comportamento
datoriale, come ritenuto dalla corte territoriale, non potendo tutte
le manifestazioni di stress essere considerate come correlate al
rapporto di lavoro (pag. 12 ricorso).
Il
motivo è fondato ed assorbente il terzo (col quale la ricorrente
principale denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e
116 c.p.c., per avere la corte territoriale basato la decisione
esclusivamente sulla disposta c.t.u., senza tener conto delle
precedenti patologie da cui lo J. risultava affetto e non connesse
all'attività lavorativa).
E'
infatti principio pacifico quello secondo cui (ex plurimis, Cass. n.
3650 del 2006), "il carattere contrattuale dell'illecito e
l'operatività della presunzione di colpa stabilita dall'art. 1218
cod. civ. non escludono che la responsabilità dell'imprenditore ex
art. 2087 cod. civ., in tanto possa essere affermata in quanto
sussista una lesione del bene tutelato che derivi causalmente dalla
violazione di determinati obblighi di comportamento, imposti dalla
legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche. Ne
consegue che la verificazione del sinistro non è di per sé
sufficiente per far scattare a carico dell'imprenditore l'onere
probatorio di aver adottato ogni sorta di misura idonea ad evitare
l'evento, atteso che la prova liberatoria a suo carico presuppone
sempre la previa dimostrazione, da parte dell'attore, che vi è stata
omissione nel predisporre le misure di sicurezza (o la violazione di
altre norme a ciò inerenti) necessarie ad evitare il danno, e non
può essere estesa ad ogni ipotetica misura di prevenzione (o
comportamentale), venendo altrimenti a configurarsi un'ipotesi di
responsabilità oggettiva, che la norma invero non prevede. Ne
consegue che il lavoratore che lamenti di aver subito, a causa
dell'attività lavorativa svolta, un danno alla salute, ha l'onere di
provare l'esistenza di tale danno, come pure la nocività
dell'ambiente di lavoro (o, può aggiungersi, la violazione di norme
inerenti il rapporto di lavoro), e il nesso di causalità tra l'uno e
l'altro. E solo quando tali circostanze egli abbia provato incombe al
datore di lavoro l'onere di provare di avere adottato tutte le
cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno, rimanendo
altrimenti quest'ultimo esonerato dall'onere di fornire la prova
liberatoria a suo carico. Nello stesso senso, basata sul principio
per cui la responsabilità del datore di lavoro ex art. 2087 cod.
civ. non configura un'ipotesi di responsabilità oggettiva, la
successiva giurisprudenza (Cass. 17 febbraio 2009 nn. 3786 e 3788).
Nella
specie la corte territoriale si è limitata ad accertare, tramite
c.t.u., che lo J. subì due stress emotivi nel corso di due riunioni
tenutesi nel mese di marzo 1999, senza esaminare minimamente se il
comportamento tenuto dai vertici aziendali in tali occasioni
configurasse gli estremi della colpa (o addirittura del dolo),
finendo in sostanza per basarsi unicamente sulle valutazioni del
c.t.u. circa la riconducibilità dello stress avvertito dal
lavoratore al comportamento (neppure chiarito ed esaminato) tenuto
dai vertici aziendali nel corso di tali due riunioni, limitandosi
dunque all'accertamento del nesso causale ma omettendo qualsivoglia
accertamento circa la premessa maggiore, la responsabilità della
datrice di lavoro per un comportamento in contrasto con l'obbligo di
sicurezza di cui all'art. 2087 c.c.
3.
Con il primo motivo del ricorso incidentale lo J. denuncia la
violazione degli artt. 2043, 2067, 2069, 2087 ce; degli artt. 1 12 e
115 c.p.c, nonché omessa ed insufficiente motivazione della sentenza
d'appello. Si duole di aver chiesto il ristoro di ogni danno, non
patrimoniale in primis, basato sulle gravi situazioni oggettive
esposte (la sua malattia; la disoccupazione propria, del figlio e
della moglie; le iniziative gravi ed ingiustificate adottate nei suoi
confronti dalla datrice di lavoro).
Il
motivo risulta infondato per le medesime ragioni che hanno condotto
all'accoglimento del ricorso principale.
4.
Con il secondo motivo questi denuncia la violazione degli artt. 2043,
2067, 2069, 2087 ce; degli artt. 112 e 115 c.p.c. e degli artt. 11 e
12 del c.c.n.l. di categoria, nonché omessa ed insufficiente
motivazione della sentenza impugnata, lamentando che egli aveva
subito anche un "pregiudizio materiale derivante dallo stato di
malattia e di disoccupazione" (pag. 15 controricorso), ciò che,
a mente del c.c.n.l. di categoria, imponeva la conservazione del
posto di lavoro ed il pagamento della relativa retribuzione.
Il
motivo è in parte inammissibile, non avendo il ricorrente
incidentale allegato, né indicata la sua esatta ubicazione
all'interno dei fascicoli di causa, il c.c.n.l. invocato (e neppure
chiaramente specificato), e per il resto infondato, non risultando
che abbia formato oggetto di contestazione (né il ricorrente, in
contrasto col principio di autosufficienza del ricorso, ha offerto
elementi in tal senso) quanto osservato dal Tribunale e dalla corte
di merito, circa l'improponibilità di ogni domanda connessa con la
cessazione del rapporto di lavoro e già definita con altra sentenza.
5.
Con il terzo motivo questi denuncia sempre la violazione degli artt.
2043, 2067, 2069, 2087 ce; degli artt. 112 e 115 c.p.c. e degli artt.
11 e 12 del c.c.n.l. di categoria, nonché omessa ed insufficiente
motivazione della sentenza impugnata. Si duole tuttavia nella
sostanza lo J. Della insufficienza della misura risarcitoria
elaborata dalla corte territoriale (sulla scorta delle tabelle in uso
presso il Tribunale di Milano), senza considerare quanto disposto
dall'art. 12 del c.c.n.l. di categoria, e la retribuzione percepita.
Anche
tale motivo è inammissibile, per non essere allegato, o indicata la
sua esatta ubicazione all'interno dei fascicoli di parte, il non
meglio specificato c.c.n.l. di categoria, nonché le buste paga
indicate, inerenti peraltro una possibile valutazione di danno
patrimoniale e non già non patrimoniale.
6.
Con il quarto motivo il ricorrente incidentale denuncia ancora la
violazione degli artt. 2043, 2067, 2069, 2087 ce; degli artt. 112 e
115 c.p.c. e degli artt. 11 e 12 del c.c.n.l. di categoria, nonché
omessa ed insufficiente motivazione della sentenza impugnata. Lamenta
tuttavia in tale sede la mancata disamina della domanda di
risarcimento del danno causato dall'illegittimo licenziamento e dalle
conseguenti omissioni contributive, nonché del mancato
riconoscimento, comunque, della rivalutazione ed interessi sulla
somma riconosciuta.
Il
motivo è infondato laddove non considera che l'illegittimità del
licenziamento del dirigente, già oggetto di precedente sentenza tra
le parti, incontestatamente ritenuta dalla corte territoriale
preclusiva di ulteriori doglianze da parte dello J. a tale titolo,
non ha alcuna efficacia ripristinatoria (con riferimento alla censura
di mancato riconoscimento della contribuzione pel periodo successivo
al licenziamento, pur dichiarato ingiustificato).
7.
Con il quinto motivo lo J. denuncia violazione e falsa applicazione
degli artt. 112, 115, 1 16 e 132 c.p.c, 41 c.p., nonché omessa ed
insufficiente motivazione della sentenza impugnata. Si duole al
riguardo dell'indagine del c.t.u., contestandone la correttezza per
non aver tenuto nel giusto conto sia la malattia preesistente, sia
quella conseguente il rapporto di lavoro.
Il
motivo è infondato per le medesime ragioni che hanno condotto
all'accoglimento del ricorso principale.
8.
Il ricorso incidentale va pertanto respinto, mentre va accolto quello
principale, nei limiti indicati. La sentenza impugnata deve quindi
essere cassata, con rinvio, anche per le spese, ad altro giudice,
affinché accerti la responsabilità della datrice di lavoro,
rilevante ex art. 2087 ce, in occasione delle due riunioni del marzo
1999.
P.Q.M.
Riunisce
i ricorsi, accoglie il secondo motivo del ricorso principale,
rigettandolo per il resto, e rigetta quello incidentale. Cassa la
sentenza impugnata in relazione alla censura accolta e rinvia, anche
per le spese, alla Corte d'appello di Torino in diversa composizione.
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