REPUBBLICA
ITALIANA
IN NOME
DEL POPOLO ITALIANO
Il
Consiglio di Stato
in sede
giurisdizionale (Sezione Sesta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 9169
del 2006, proposto dal Ministero dell'Interno, in persona del Ministro pro
tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato,
domiciliato per legge in Roma, via dei Portoghesi, 12;
contro
Il signor ^^^^^^, rappresentato e difeso
dagli avvocati Giuseppe Carraro, Luigi Manzi, Fabrizio Scagliotti e Fabio
Greggio, con domicilio eletto presso lo studio dell’avv. Luigi Manzi in Roma,
via Federico Confalonieri, 5;
per la riforma della
sentenza del t.a.r. veneto – venezia, sezione prima, n. 3534/2005;
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio del
signor **************;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 5
luglio 2011 il Cons. Antonio Malaschini e udito per le parti l’avvocato dello
Stato Paola Palmieri.;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto
quanto segue.
FATTO e DIRITTO
1. L’appellato, agente della Polizia di
Stato, veniva arrestato, nel settembre del 1998, in quanto sorpreso a spendere
moneta falsa. La vicenda si concludeva in data 8 aprile 2003 con una sentenza
di assoluzione, “perché il fatto non costituisce reato, in ordine alla
sussistenza della consapevolezza della falsità delle banconote”.
Tuttavia, con provvedimento del 28 Agosto
2003, venivano a lui contestati dall’Amministrazione di appartenenza addebiti
perché risultava “solito ostentare ingenti quantità di denaro in locali e con
compagnie non confacenti alla dignità della propria funzione”, comportando ciò
“mancanza del senso dell’onore e del senso morale”, ancora più rilevanti, se
valutate nel complesso dei suoi precedenti disciplinari.
Il procedimento si concludeva con
l’irrogazione, ai soli fini dichiarativi, della sanzione disciplinare della
riduzione di una mensilità dello stipendio nella misura di 5/30.
Il provvedimento disponeva altresì che la
sospensione cautelare dallo stesso sofferta per il periodo 14 settembre 1998 –
19 novembre 1998, in relazione al provvedimento restrittivo sopra ricordato,
fosse revocata, fatta salva la decurtazione derivante dalla sanzione irrogata.
2. Contro tale atto, l’interessato proponeva
ricorso al Tribunale amministrativo regionale per il Veneto (n. 1161 del 2004).
La principale fra le numerose censure da lui
avanzate nel ricorso (definito dal giudice di primo grado “assai confuso e poco
intelligibile“) risultava essere quella relativa alla non adeguata motivazione
del provvedimento: si dava infatti in esso per certa da parte
dell’Amministrazione, a giudizio del ricorrente, la frequentazione di persone
che notoriamente non godono di pubblica estimazione, senza indicarne alcuna, né
specificare le ragioni di tale giudizio.
Il ricorrente richiedeva altresì il
risarcimento dei danni asseritamente patiti in esito al provvedimento impugnato
e all’intera vicenda che lo aveva visto protagonista, indicando alcuni
funzionari a suo dire responsabili dei danni medesimi, riferiti non solo al
mero pregiudizio di carattere patrimoniale, ma anche al danno all’immagine,
alla violazione della privacy e a tutte le sofferenze di ordine psicologico
patite.
Oltre alla restitutio in integrum, egli
chiedeva pertanto la condanna della P.A. al pagamento di complessivi €
1.500.000 per danno esistenziale.
2.1 Il Tribunale amministrativo regionale
adito, dopo aver rilevato come venisse all’esame del Collegio l’ennesimo
procedimento disciplinare posto in essere dall’Amministrazione nei confronti
del ricorrente, più volte inquisito sia in sede penale che disciplinare,
affrontava in via preliminare la censura del difetto di motivazione e di
istruttoria, ritenendola prevalente rispetto alle altre avanzate.
In premessa, ricordava il TAR che la Pubblica
Amministrazione ha facoltà di iniziare il procedimento disciplinare nei
confronti del proprio dipendente, ancorché assolto in sede penale, quando dai
fatti ivi accertati emergano circostanze aventi anche riflesso disciplinare.
Detti fatti debbono tuttavia essere effettivamente accertati e valutati alla
luce delle regole che disciplinano il rapporto di lavoro e congruamente
motivati in ordine alla sanzione inflitta.
Dalla documentazione in causa, osservava il
TAR, emergeva che l’istruttoria disciplinare si fosse limitata a prendere atto
della testimonianza resa nel giudizio penale da colleghi dell’istante, i quali
avevano affermato (circostanza ammessa dallo stesso ricorrente) che, negli anni
1997–98, egli risultava in possesso di grosse somme di danaro contante (fino a
£. 200.000.000) che portava con sé ed ostentava quando frequentava locali
notturni del Veneto e della Lombardia.
Non risultava però che l’Amministrazione
avesse svolto ulteriori indagini, né avesse accertato se l’incolpato avesse effettivamente
avuto “frequentazioni” (cioè contatti continui o quanto meno ripetuti) con
persone che notoriamente non godono di pubblica estimazione, che negli atti
dell’istruttoria non risultavano identificate.
Peraltro il ricorrente aveva dichiarato, nella
sua memoria difensiva, di non essere abituale frequentatore di locali notturni;
di esserlo divenuto in un periodo di particolare fragilità psicologica e di non
aver comunque intessuto amicizie o frequentazioni con persone pregiudicate e
pericolose, richiedendo altresì che tali soggetti venissero puntualmente
individuati, come era stato fatto in altri, analoghi procedimenti disciplinari.
In definitiva la contestazione, ad avviso del
giudice di primo grado, faceva esclusivo riferimento nella sua motivazione alla
mancanza di senso dell’onore e della morale, in quanto il ricorrente “era
solito ostentare ingenti quantità di denaro in locali e con compagnie non
confacenti alla dignità della propria funzione”, e veniva sanzionato
espressamente per aver mantenuto “relazioni con persone che notoriamente non
godono di pubblica estimazione, frequentando locali e compagnie non confacenti
al proprio stato”, senza che dalla fase istruttoria emergesse con puntualità di
quali locali e persone si trattasse.
2.2 Il TAR, con ka sentenza n. 3534 del 26
giugno 2005, annullava il provvedimento impugnato, in quanto non sorretto da
adeguata istruttoria e motivazione, con salvezza dell’atto di contestazione
degli addebiti e con facoltà dell’Amministrazione di rinnovare, adeguandola,
l’istruttoria, a partire dal suo primo atto, nei tempi e con le modalità di cui
all’art. 119 del d.P.R. 10 gennaio 1957.
La richiesta di risarcimento del danno veniva
invece respinta.
3. Contro tale sentenza ricorreva al
Consiglio di Stato il Ministero dell’Interno.
Per quanto riguarda il dichiarato difetto di
istruttoria e di motivazione, ha dedotto il Ministero che la condotta
disciplinarmente sanzionata era stata già accertata nell’ambito del processo
penale conclusosi con la sentenza di assoluzione, attraverso l’acquisizione di
prove testimoniali, nonché attraverso ammissioni dello stesso dipendente
In virtù del principio di economicità ed
efficienza del procedimento amministrativo, si riteneva che le fonti di prova
attinte dal processo penale ed utilizzate dall’Amministrazione al fine
dell’accertamento dei fatti integranti l’illecito disciplinare potessero essere
utilizzate a fondamento del procedimento disciplinare, senza rendersi
necessaria una loro ripetizione.
Ancora, risultava agli atti che il Consiglio
provinciale di disciplina della Questura di Padova avesse tenuto conto, oltre
che delle risultanze emergenti dal procedimento penale, anche di altri elementi
acquisiti nel corso del procedimento.
L’originario ricorrente ha proposto un
appello incidentale, deducendo che la sentenza del TAR non si è pronunciata
sulla censura, ritenuta dirimente, relativa alla illegittimità dell’attivazione
di un procedimento disciplinare per fatti da cui il soggetto fosse stato
assolto in sede penale.
Veniva altresì riproposta nell’appello
incidentale la questione della non applicabilità della sanzione in esame in
quanto il dipendente, all’esito di un distinto procedimento, risultava
destituito dal servizio a decorrere dal 20 novembre 1998.
La causa veniva assunta in decisione alla
pubblica udienza del 5 luglio 2011.
4. Per il suo carattere preliminare, va
esaminata la censura riproposta nell’appello incidentale, secondo cui
l’Amministrazione non avrebbe potuto irrogare una sanzione disciplinare per un
periodo in cui il dipendente risultava già destituito dal servizio.
La censura risulta infondata, poiché la
sanzione è stata irrogata ai soli fini dichiarativi, con riferimento al periodo
che va dal 14 settembre al 19 novembre 1998, data antecedente il 20 novembre
1998, a decorrere dalla quale egli è stato destituito dal servizio.
Il provvedimento sanzionatorio si è
legittimamente riferito al periodo rispetto al quale va determinata la
retribuzione spettante al dipendente.
5 Vanno poi respinte le ulteriori censure
dell’appello incidentale, relative alla impossibilità di promuovere un
procedimento disciplinare per fatti da cui il soggetto sia risultato assolto in
sede penale.
Come ha già rilevato questo Consiglio (sez.
IV, 3 maggio 2011, n.2643), il codice di procedura penale del 1988, innovando
rispetto al passato, non ha riprodotto l’art. 3 del c.p.p. del 1930, in tema di
pregiudiziale penale per cui, in linea di principio, il giudizio penale e il
procedimento disciplinare devono essere considerati autonomi tra loro.
Pertanto, l’assoluzione per non aver commesso
un fatto penalmente rilevante non preclude, in sede disciplinare, una rinnovata
valutazione della condotta, così come oggettivamente accertata dal giudice
penale, essendo diversi i presupposti delle rispettive responsabilità.
L’area dell’illecito penale è infatti più
ristretta rispetto a quella dell’illecito disciplinare, per cui uno stesso
fatto può essere giudicato lecito dal punto di vista penale ed illecito sotto
il profilo disciplinare.
Deve naturalmente restare fermo il solo
limite dell'immutabilità dell'accertamento dei fatti nella loro materialità
operato in sede penale, cosicché, se è inibito ricostruire l'episodio posto a
fondamento dell'incolpazione in modo diverso da quello storicamente risultante
dalla sentenza penale passata in giudicato, sussiste tuttavia il potere della
P.A. di valutare i medesimi accadimenti nell'ottica dell'illecito disciplinare.
In definitiva, argomentando ex art. 97 d.P.R.
n. 3 del 10 gennaio 1957 ed ex art. 7 d.lgs. n. 449 del 1992, ove dalla
sentenza di assoluzione discenda che il fatto non costituisce reato, deve
ritenersi che l'Amministrazione conservi il suo potere di autonoma valutazione
dell’illecito nell’ambito del procedimento disciplinare (cfr. anche Consiglio
Stato , sez. IV, 07 luglio 2009 , n. 4359).
Da qui la piena ammissibilità, sotto tale
profilo, del procedimento disciplinare in questione.
6. Passando all’esame dell’appello
principale, ritiene la Sezione che il provvedimento sanzionatorio impugnato in
primo grado – contrariamente a quanto statuito dal TAR – risulti adeguatamente
motivato.
Va in primo luogo ricordato come il
dipendente sia stato sanzionato alla luce dell’articolo 4, n.3, del D.P.R. n.
737 del 25 ottobre 1981, che punisce l’infrazione del “mantenimento, al di
fuori delle esigenze di servizio, di relazioni con persone che notoriamente non
godono in pubblico estimazione o la frequenza di locali o compagnie non
confacenti al proprio stato”.
A tali relazioni si è richiamato il provvedimento
impugnato.
L’Amministrazione – con una motivazione
logica ed adeguata alle circostanze accadute - ha richiamato talune risultanze
del processo penale quali fonti di prova di fatti integranti l’illecito
disciplinare.
Anche se oggetto del processo penale era la
contestata spendita dolosa di banconote false, reato in merito al quale il
dipendente è stato assolto, dalle risultanze istruttorie è emersa del tutto
chiaramente e univocamente la frequentazione di locali e persone non consoni al
decoro richiesto ad un appartenente alle forze dell’ordine.
Il dipendente non ha contestato la
frequentazione degli ambienti sopra ricordati (né tantomeno la contestuale
ostentazione di ingenti quantità di somme di denaro), limitandosi ad attenuarne
la rilevanza giustificandola con l’attraversamento di un difficile periodo per
problemi personali.
Ora, anche alla luce del complessivo
comportamento dell’interessato nel corso della propria carriera, e tenuto conto
delle modalità di ostentazione del denaro, evidenziate nel provvedimento
impugnato, risulta che l’Amministrazione ha del tutto chiaramente indicato i
fatti meritevoli di punizione, nonché le ragioni su cui si è basata
l’indulgente misura in concreto irrogata.
7 Per quanto attiene alla richiesta di
risarcimento avanzata dall’interessato, la reiezione delle censure di primo
grado comporta che non sussistono in alcun modo gli elementi costituti di un
illecito dell’Amministrazione.
Al contrario, in assenza di una domanda
ritualmente proposta, non può il Consiglio di Stato occuparsi del pregiudizio
cagionato all’immagine dell’Amministrazione.
8. Per le ragioni che precedono, l’appello
incidentale va respinto e va invece accolto l’appello principale proposto
dall’Amministrazione, sicché – in riforma della sentenza del TAR – il ricorso
di primo grado va integralmente respinto.
Le spese dei due gradi del giudizio seguono
la soccombenza.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede
giurisdizionale, sezione VI, definitivamente pronunciandosi sull’appello in
epigrafe, respinge l’appello incidentale, accoglie l’appello principale e per
l’effetto, in riforma della sentenza appellata, respinge integralmente il
ricorso di primo grado.
Condanna la parte soccombente, ammessa in
data 14 marzo 2011 al patrocinio a spese dello Stato, alle spese di giudizio
quantificate in 3000 (tremila/00) euro, di cui 1.000 per il primo grado e 2.000
per il secondo grado.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita
dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella
camera di consiglio del giorno 5 luglio 2011 con