SUPREMA
CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE
III CIVILE
Sentenza
16 giugno 2011, n. 13179
REPUBBLICA
ITALIANA
IN
NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA
CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
TERZA
SEZIONE CIVILE
Composta
dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott.
ROBERTO PREDEN - Presidente -
Dott.
ALFONSO AMATUCCI - Consigliere -
Dott.
ADELAIDE AMENDOLA - Consigliere -
Dott.
GIOVANNI GIACALONE - Consigliere -
Dott.
GIUSEPPINA LUCIANA BARRECA - Rei. Consigliere -
ha
pronunciato la seguente
SENTENZA
sul
ricorso 26970-2006 proposto da:
***
elettivamente
domiciliati in ROMA, VIA DEI GRACCHI 283, presso lo studio
dell'avvocato CALA' GIUSEPPE che li rappresenta e difende ***
con
procura speciale del Dott. Notaio CHRISTOPHER JOHN LANGRIDGE in
TUMBRIDGE WELLS INGHILTERRA 12/9/2006;
-
ricorrenti -
contro
(SOC.
ASSICURATRICE *** S.P.A.;
-
Intimati. -
sul
ricorso 30819-2006 proposto da:
***
S.P.A. già - SOC. ASSICURATRICE *** S.P.A., in persona del legale
rappresentante prò tempore Dott. ***, elettivamente domiciliata in
ROMA, VIA L. BISSOLATI 76, presso lo studio dell'avvocato TOMMASO
SPINELLI GIORDANO, che la rappresenta e difende unitamente
all'avvocato GIORGI LUCIANO giusta delega a margine del controricorso
e ricorso incidentale;
-
ricorrente -
Contro
***
*** in ***
elettivamente
domiciliati in ROMA, VIA DEI GRACCHI 283, presso lo studio
dell'avvocato CALA' GIUSEPPE, che li rappresenta e difende con
procura speciale del Dott. Notaio CHRISTOPHER JOHN LANGRIDGE in
TUMBRIDGE WELLS INGHILTERRA 12/9/2006;
-
controricorrenti -
nonché
contro
-
Intimati -
avverso
la sentenza n. 995/2005 della CORTE D'APPELLO di FIRENZE - SECONDA
SEZIONE CIVILE, emessa il 1/2/2005, depositata il 30/06/2005, R.G.N.
739/A/2001;
udita
la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 10/03/2011
dal Consigliere Dott. GIUSEPPINA LUCIANA BARRECA; udito l'Avvocato
GIUSEPPE CALA';
udito
l'Avvocato ENRICA FASOLA (per delega dell'Avv. TOMMASO SPINELLI
GIORDANO);
udito
il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.
COSTANTINO FUCCI che ha concluso per il rigetto del ricorso
principale e incidentale.
SVOLGIMENTO
DEL PROCESSO
1.-
*** premesso che il giorno 8 agosto 1991, verso le ore 22.30, mentre
attraversavano a piedi la strada in località Ponti di Badia,
frazione di Castiglione della Pescaia, erano stati investiti
dall'autovettura di proprietà di *** e *** condotta da ***
riportando gravi lesioni personali, convennero in giudizio questi
ultimi e la società assicuratrice *** S.p.A., chiedendone la
condanna al risarcimento dei danni rispettivamente subiti. Si
costituirono tutti i convenuti, resistendo alle domande.
Il
Tribunale di Grosseto, ritenuta la responsabilità del *** nella
misura del 90%, condannò in solido i convenuti al pagamento in
favore della *** nella somma di lire 335.264.400 ed in favore del ***
della somma di lire 64.587.600, in valuta attuale, oltre interessi al
tasso legale, dal dì del sinistro, sulla media tra tali somme e
quelle devalutate a tale data; compensò le spese di lite nella
misura del 10%, condannando i convenuti al pagamento,in solido, del
residuo.
2.-
Proposto appello da parte di tutti i convenuti, la Corte d'Appello di
Firenze, rigettata l'eccezione di inammissibilità del gravame
sollevata dagli appellati, ha accolto parzialmente l'appello, e,
ritenuta la responsabilità del *** nella diversa misura del 60%, ha
riconosciuto in favore della *** la minor somma di € 115.433,07 ed
in favore del *** la minor somma di € 9.842,84, in valori espressi
all'epoca della sentenza di primo grado, oltre interessi nella misura
di cui a tale sentenza; ha quindi condannato gli appellati alla
restituzione della differenza tra quanto liquidato in primo grado e
quanto riconosciuto come dovuto in secondo grado, oltre interessi; ha
compensato tra le parti le spese di entrambi i gradi nella misura di
un quinto ed ha condannato in solido i convenuti al pagamento delle
spese restanti sia del primo che del secondo grado.
3.-
Avverso la sentenza della Corte d'Appello di Firenze propongono
ricorso per cassazione *** e *** a mezzo di quattro motivi.
Resiste
con controricorso la *** S.p.A., subentrata alla **** S.p.A., che
propone anche ricorso incidentale sulla base di due motivi. I
ricorrenti hanno depositato controricorso a tale ricorso incidentale.
Non si sono difesi gli altri intimati.
MOTIVI
DELLA DECISIONE
Preliminarmente
occorre procedere alla riunione di ricorso principale e ricorso
incidentale proposti avverso la stessa sentenza.
1.-
Il primo ed il secondo motivo di ricorso principale vanno esaminati
congiuntamente poiché attengono ai vizio di motivazione sulla
circostanza della «data di deposito della sentenza di primo grado
del Tribunale di Grosseto» nella cancelleria di questo tribunale,
nonché alla collegata e denunciata falsa applicazione dell'art. 133,
comma 2°, cod. proc. civ. con riferimento alla medesima data ed,
ancora, alla falsa applicazione dell'art. 136 cod. proc. civ., sugli
effetti della comunicazione del deposito della sentenza, e dell'art.
327 cod. proc. civ. sulla decorrenza del termine annuale per
l'impugnazione.
In
particolare, entrambe le censure sono rivolte alla decisione dei
giudici d'appello che ha ritenuto la sentenza di primo grado
depositata, quindi pubblicata, ai fini della proposizione del
gravame, ex art. 133, comma primo, cod. proc. civ., nella data del 28
febbraio 2000, quando invece vi era stato un deposito già in data 31
gennaio 2000; con la conseguenza che, secondo i ricorrenti,
l'appello, proposto con atto notificato in data 11 aprile 2001,
avrebbe dovuto essere dichiarato inammissibile.
1.2.-
Entrambi i motivi sono infondati.
Il
giudice d'appello ha tenuto conto in motivazione delle due
annotazioni apposte dal cancelliere in calce alla sentenza di primo
grado ed ha adeguatamente motivato in merito alla distinzione tra il
deposito della minuta (quale ha ritenuto essere quello effettuato in
data 31 gennaio 2000, per come letteralmente risultante dalla
relativa annotazione) ed il deposito della sentenza rilevante ai fini
della sua pubblicazione ai sensi dell'art. 133 cod. proc. civ. (quale
ha ritenuto essere quello effettuato in data 28 febbraio 2000).
La
Corte di merito ha preso in esame, oltre alla norma da ultimo citata,
anche l'art. 119 disp. art. cod. proc. civ. e, dal combinato disposto
dei due articoli, ha tratto le seguenti conclusioni:
-
il legislatore ha inteso distinguere tra la consegna della minuta al
cancelliere, per la definitiva scritturazione della sentenza, anche
relativamente all'intestazione ed ai contenuti di cui ai nn. 1), 2) e
3) dell'art. 132 cod. proc. civ., ed il deposito della sentenza,
all'esito della verifica tra l'originale e la minuta precedentemente
consegnata;
-
per deposito della sentenza, rilevante ai fini della pubblicazione,
deve intendersi il definitivo deposito di tale atto all'esito della
prescritta verifica e non invece la semplice consegna della minuta al
cancelliere, quest'ultima da considerarsi come atto interno
dell'ufficio giudiziario, privo cioè di immediata rilevanza esterna.
1.3.-
I principi appena esposti conseguono ad una corretta applicazione
delle norme esaminate dai giudici d'appello e non danno luogo ad
alcuna violazione delle norme richiamate col secondo motivo di
ricorso. Quanto a queste ultime, conviene prendere le mosse dall'art.
327 cod. proc. civ., per il quale rileva, ai fini della decorrenza
del termine annuale per l'impugnazione, la pubblicazione della
sentenza, quindi il suo deposito in cancelleria, e non la
comunicazione che di tale deposito dà il cancelliere ai sensi degli
artt. 133, comma secondo, e 136 cod. proc. civ. (cfr., tra le più
recenti, Cass. nn. 11630/04, 6375/06, 15778/07, 24913/08, nonché
ord. n.17290/09).
Ne
consegue che la norma rilevante per detta decorrenza è quella
dell'art. 133, comma primo, cod. proc. civ., così come correttamente
interpretato ed applicato dalla Corte d'Appello di Firenze, nel senso
che la sentenza è pubblicata «mediante deposito nella cancelleria
del giudice che l'ha pronunciata».
Il
deposito rilevante ai fini del combinato disposto degli artt. 327 e
133 cod. proc. civ. è quello che si attua con la consegna al
cancelliere della sentenza in originale sottoscritta dal relatore e
dal presidente, ai sensi dell'art. 119, commi secondo e terzo, disp.
att. cod. proc. civ.; è invece da escludere che rilevi, ai fini
della decorrenza del termine per proporre l'impugnazione, il deposito
in cancelleria, medi ante consegna al cancelliere, della minuta della
sentenza, ai sensi del comma primo della stessa disposizione di
attuazione.
Il
principio appena espresso è stato già affermato da questa Corte nel
precedente costituito dalla sentenza del 19 maggio 2008 n. 12681 (cui
ha fatto seguito Cass. n. 14862/2009), la cui massima («per effetto
del combinato disposto degli artt. 133 e 327 cod. proc. civ. il
termine annuale per l'impugnazione della sentenza non notificata
inizia a decorrere dalla data della sua pubblicazione e, laddove
sulla sentenza pubblicata appaiano due date, una di deposito in
cancelleria da parte del giudice e l'altra, successiva, di
pubblicazione indicata come tale dal cancelliere, è solo a
quest'ultima che bisogna aver riguardo ai fini della decorrenza del
termine») , ben si attaglia al caso di specie, anche se necessita
della seguente precisazione: sia nel caso deciso dal precedente
richiamato (per come si può ricavare dal richiamo all'art. 119 disp.
att. c.p.c. fatto in motivazione) che nel presente la prima
annotazione di deposito è riferita al deposito della minuta e la
seconda al deposito dell'originale. In conseguenza di siffatta
precisazione non è riscontrabile alcun contrasto con altri
precedenti di questa Corte, in particolare quello per il quale
«quando sull'originale di una sentenza figuri una doppia
attestazione da parte del cancelliere, il quale dà atto che essa è
stata depositata in una certa data e pubblicata in una data
successiva, ai fini del computo del ed. termine lungo per
l'impugnazione di cui all'art. 327 cod. proc. civ. occorre fare
riferimento alla data di deposito e non a quella di pubblicazione, in
quanto è solo la prima che integra la fattispecie di cui all'art.
133 cod. proc. civ., mentre la successiva pubblicazione si collega ad
attività che il cancelliere è obbligato a compiere per la tenuta
dei registri di cancelleria o per gli avvisi alle parti dell'avvenuto
deposito» (così Cass. 30 marzo 2011, n. 7240; cfr., nello stesso
senso anche Cass. 23 luglio 2009, n. 17290; 29 settembre 2009, n.
20858): nei casi oggetto di tali ultime decisioni, la prima
certificazione del cancelliere era infatti riferita al deposito
dell'originale della sentenza, non, come nel caso di specie, al
deposito della minuta.
E'
bene aggiungere che la distinzione tra deposito della minuta e
deposito dell'originale non è meramente nominalistico, ma, oltre a
risultare dall'art. 119 disp. att. cod. proc. civ. (la cui lettura va
peraltro adeguata, tenendo conto della riforma del giudice unico di
primo grado e dell'introduzione dei registri informatici di
cancelleria), rileva ai fini dell'immodificabilità del testo della
sentenza, che consegue soltanto al secondo e non anche al primo.
1.4.-
Peraltro, i ricorrenti non censurano specificamente la ratio
decidendi della sentenza impugnata laddove distingue tra
deposito della minuta ex art. 119 disp. att. cod. proc. civ. e
deposito della sentenza ex art. 133, comma primo, cod. proc. civ., ma
assumono che il giudice d'appello avrebbe errato nell'interpretare ed
applicare il comma secondo di tale ultima norma. In particolare,
sostengono che il cancelliere avrebbe allegato al biglietto di
cancelleria, con cui comunicava l'avvenuto deposito della sentenza di
primo grado, una copia del dispositivo di questa che recava soltanto
il timbro del deposito avvenuto in data 31 gennaio 2000, e non di
quello avvenuto in data 28 febbraio 2000: ne seguirebbe, secondo i
ricorrenti, che, anche ai fini della decorrenza del termine per
impugnare, rileverebbe la data risultante dall'allegato al biglietto
di cancelleria, comunicato ex art. 136 cod. proc civ.
La
censura, sostanzialmente ripetuta nella duplice prospettiva del primo
e del secondo motivo, non è meritevole di accoglimento, per nessuno
dei due.
1.5.-
Con riferimento al secondo motivo, la censura è errata quanto alla
rilevanza attribuita al comma secondo dell'art. 133 cod. proc. civ.,
in riferimento agli articoli 136 e 327 cod. proc. civ.
L'art.
133, comma secondo, cod. proc. civ., dispone che il cancelliere, dopo
aver dato atto del deposito della sentenza ed avervi apposto la data
e la firma, ne dia notizia alle parti, mediante biglietto contenente
il dispositivo: la norma, nel prevedere l'avviso alle parti (che,
dopo l'aggiunta del terzo comma da parte dell'art. 2, comma 3, lett.
a del d.l. 14 marzo 2005 n. 35, convertito nella legge 14 maggio
2005, n. 80, può essere effettuato anche con le modalità previste
da tale disposizione), disciplina una formalità estrinseca all'atto
di deposito, non essenziale per ritenere compiuta l'attività di
pubblicazione rilevante ai fini del primo comma dell'art. 133 cod.
proc. civ. (nonché, come detto sopra, dell'art. 327 cod. proc.
civ.).
Questa
Corte ha ripetutamente affermato che il deposito rilevante ai fini
della pubblicazione consiste nella consegna ufficiale al cancelliere
dell'originale della sentenza sottoscritta dal giudice e, di recente,
ha precisato che, mentre la fattispecie della pubblicazione è
completata con l'attestazione del deposito dell'originale da parte
del cancelliere, sono estranee alla nozione normativa di
pubblicazione le attività compiute dal cancelliere in adempimento
dei suoi doveri di tenuta dei registri di cancelleria o di avviso
alle parti (cfr. Cass. n. 7240/2011 cit.).
In
conclusione, l'avviso che il cancelliere fa alle parti costituite non
rileva, come detto sopra, ai fini della decorrenza del termine ex
art. 327 cod. proc. civ., ma nemmeno rileva come adempimento
necessario per la pubblicazione della sentenza.
Correttamente
pertanto la sentenza impugnata ha considerato rilevante ai fini della
tempestività dell'impugnazione proposta nel termine dell'art. 327
cod. proc. civ. la data di pubblicazione dell'originale della
sentenza ai sensi del primo comma dell'art. 133 cod. proc. civ.
1.6.-
La censura dei ricorrenti non è meritevole di accoglimento nemmeno
con riguardo al vizio di motivazione denunciato col primo motivo,
essendo questo in parte infondato ed in parte inammissibile.
La
Corte d'Appello ha effettuato una valutazione completa ed esauriente
dei testi delle annotazioni rinvenute in calce alla sentenza ed ha
ritenuto che la prima si riferisse al deposito della minuta.
L'accertamento
se il deposito abbia riguardato la minuta ovvero l'originale della
sentenza, nel caso di specie, risulta adeguatamente motivato e perciò
non è censurabile. E' invece inammissibile la censura di difetto di
motivazione per non avere la Corte d'Appello motivato sul fatto che
al biglietto di cancelleria recante l'avviso dell'avvenuto deposito
della sentenza fosse stata allegata una copia del dispositivo di
questa che avrebbe avuto in calce soltanto uno dei timbri di deposito
(quello relativo alla minuta del 31 gennaio 2000) e non anche l'altro
(quello relativo all'originale del 28 febbraio 2000); secondo i
ricorrenti, se si fosse considerato tale fatto, si sarebbe dovuto
concludere nel senso che la prima annotazione non si riferisse al
deposito di una minuta bensì al deposito del testo originale e
definitivo della sentenza. Orbene, si tratta di un fatto che la
sentenza non prende in alcun modo in considerazione: per tale
ragione, i ricorrenti avrebbero dovuto allegare di avere dedotto tale
fatto in appello ed avrebbero dovuto riportare in ricorse il
contenuto del proprio atto difensivo, indicando anche se e quando
fosse stata effettuata in giudizio la produzione del biglietto di
cancelleria sul quale tale parte del motivo di ricorso si fonda; in
mancanza, la relativa censura, non conforme alla previsione dell'art.
366 n. 6, cod. proc. civ., è inammissibile.
2.-
Col terzo motivo di ricorso, si denuncia vizio di motivazione in
merito alla percentuale del concorso di colpa, ritenuto in capo ai
danneggiati nella misura del 40%, con riforma sul punto della
sentenza di primo grado, che l'aveva invece limitato al 10%.
Assumono
i ricorrenti che le risultanze processuali -in particolare l'esito
della CTU sulla velocità dell'autovettura e sui tempi di
attraversamento dei pedoni al momento dell'incidente e la deposizione
del testimone oculare- avrebbero dovuto indurre il giudice d'appello
a non riformare sul punto la sentenza appellata.
2.1.-
Per contro, col primo motivo del ricorso incidentale -che va qui
trattato per evidente connessione col terzo motivo del ricorso
principale - la *** S.p.A. denuncia il medesimo vizio di motivazione
sul riparto delle responsabilità, nonché il vizio di violazione di
legge con riferimento all'art. 2054 cod. civ., agli artt. 101 e 134
del previgente codice della strada ed all'art. 589 del relativo
regolamento.
Secondo
la ricorrente incidentale il quadro probatorio emerso nei gradi di
merito, avrebbe dovuto condurre all'affermazione della responsabilità
esclusiva dei pedoni ovvero, in denegata ipotesi, della loro maggiore
prevalente responsabilità.
2.2.-
I motivi sopra esposti, per la parte in cui denunciano violazione
dell'art. 360 n. 5 cod.proc.civ., non sono meritevoli di
accoglimento.
La
motivazione della Corte d'Appello è congrua e logica, quindi
incensurabile in cassazione, non essendo consentito a questa Corte
valutare le emergenze probatorie invocate dai ricorrenti principali e
dalla ricorrente incidentale al fine di pervenire ad un diverso
apprezzamento del fatto, che è riservato al giudice del merito
(cfr., quanto alla determinazione del grado delle colpe concorrenti,
già Cass. 21 marzo 1977 n. 1110 e 17 aprile 1982 n. 2337, secondo
cui il giudice di merito assolve all'obbligo della motivazione con
l'esprimere il proprio convincimento circa la maggiore od uguale
gravità dell'una e dell'altra colpa, in base ad una valutazione
complessiva dei fatti e dell'efficienza causale del comportamento
colposo di ciascuno dei corresponsabili, senza che occorra una
specificazione dei motivi).
2.3.-
Più in particolare, è significativa dell'inammissibilità di
entrambe le censure la circostanza che le parti contrapposte invocano
le medesime risultanze processuali e lamentano l'illogicità e la
contraddittorietà della motivazione con riguardo al medesimo
argomento di questa, per trarne conclusioni diametralmente opposte,
al fine di sostenere le rispettive contrapposte ragioni. Secondo
entrambe le parti, la motivazione sarebbe viziata laddove la Corte
d'Appello afferma che le conclusioni della consulenza tecnica
d'ufficio non contrastano con le dichiarazioni rese dall'unica
testimone che ebbe ad assistere al sinistre. Per addivenire a tale
affermazione la Corte di merito svolge un articolato ragionamento sui
contenuti della prima e delle seconde, valutando ed apprezzando la
deposizione testimoniale in termini che vengono contestati, dai
contrapposti già evidenziati punti di vista, sia dai ricorrenti
principali che dalla ricorrente incidentale.
In
realtà la motivazione della sentenza risulta illogica e
contraddittoria quanto al punto suddetto ed alle conseguenze che se
ne fanno derivare, a seconda della lettura che viene data della
deposizione dell'unica testimone sentita in primo grado. Infatti, ciò
che le parti denunciano come illogicità della motivazione altro non
è che la conseguenza del tentativo di sostituire all'apprezzamento
della prova testimoniale così come compiuto dal giudice d'appello,
il proprio contrapposto apprezzamento, in ragione del quale la
testimonianza finirebbe per risultare in contrasto con le risultanze
peritali; per di più, tale contrasto dovrebbe essere risolto in
senso, per ciascuna delle parti, favorevole alla propria contrapposta
ricostruzione della dinamica del sinistro.
2.4.-
Poiché la valutazione delle risultanze della prova testimoniale
involge un apprezzamento riservato al giudice del merito, che
incontra il solo limite dell'indicazione delle ragioni dei proprio
convincimento, è da escludere che sia censurabile la motivazione
della sentenza impugnata sia quanto alla ricostruzione della dinamica
del sinistro sia quanto al riparto delle rispettive responsabilità.
Infatti, attribuito alle dichiarazioni della teste *** il significato
dato dalla Corte d'Appello alle pagine VI e VII della sentenza,
questo non risulta affatto in contrasto con gli esiti della CTU
esposti dettagliatamente in motivazione; quindi, effettuata la
ricostruzione del sinistro sulla base di tali elementi,
l'individuazione del grado delle rispettive colpe risulta coerente
con la complessiva valutazione dei fatti -avendo all'uopo i giudici
di merito individuato anche i comportamenti addebitabili, da un lato
ai pedoni (quanto alle modalità ed ai tempi dell'attraversamento
della strada), da altro lato al conducente della vettura (quanto alla
condotta di guida disattenta ed in violazione delle prescrizioni
presenti in loco).
2.5.-
Parimenti inammissibile poiché relative al medesimo apprezzamento di
fatto riservato al giudice del merito, di cui si è detto sopra, è
l'altro profilo del primo motivo del ricorso incidentale. Infatti,
con tale censura, pur deducendo il vizio di violazione delle norme
sopra riportate, in realtà la compagnia assicuratrice finisce per
lamentarsi dell'apprezzamento che il giudice del merito ha fatto in
ordine dell'incidenza causale della loro violazione.
Secondo
la ricorrente incidentale, infatti, tra le due violazioni al codice
della strada addebitabili rispettivamente ai pedoni (violazione delle
norme degli artt. 101, 136, comma sesto, dell'allora vigente T.U.
sulla circolazione stradale n. 393/1959 e dell'art. 589 del relativo
regolamento) ed all'automobilista (violazione dell'art. 102 del
medesimo T.U.), si sarebbe dovuta riconoscere una maggiore incidenza
percentuale nella determinazione del sinistro alla prima piuttosto
che alla seconda.
Poiché
è da escludere che l'efficienza causale di una determinata condotta
colposa, in quanto tenuta in violazione di uno o più precetti
normativi, possa essere desunta in astratto dalla portata dei
precetti violati, è altresì da escludere che il relativo giudizio
si possa tradurre in un error in iudicando denunciatale
come violazione o falsa applicazione dei precetti normativi ai quali
l'agente avrebbe dovuto conformare la propria condotta.
Si
tratta, invece, come detto, di un apprezzamento dì fatto, rispetto
al quale la sentenza del giudice di merito è censurabile al più ai
sensi dell'art. 360 n.5, cod. proc. civ. ; censura che, proposta
anche dalla ricorrente incidentale, è stata già reputata non
meritevole di accoglimento.
3.-
Col quarto motivo il ricorrente denuncia vizio di motivazione in
merito alla statuizione di riforma della sentenza di primo grado che
ha portato al mancato riconoscimento del diritto al risarcimento del
danno alla propria sfera sessuale, nonché del danno da lucro
cessante in conseguenza dell'assistenza prestata alla moglie.
La
Corte d'Appello è pervenuta alla riforma ritenendo che, per entrambe
dette voci di danno (che il primo giudice aveva liquidato negli
importi equitativi di lire venti milioni per ciascuna), la sentenza
di primo grado fosse viziata per ultrapetizione, non avendo l'attore
richiesto il relativo risarcimento con l'atto di citazione dinanzi al
Tribunale.
Sostiene,
invece, il ricorrente che entrambe le voci di danno fossero state
dedotte come risarcibili nella parte motiva della citazione
(precisamente alle pagine di questa indicate in ricorso) e che
entrambe dovessero intendersi richiamate al capo D) delle
conclusioni, in cui veniva richiesta la condanna dei convenuti al
risarcimento «dei danni tutti subiti e subendi dagli attori così
come accertati con consulenza tecnica di parte e specificati in
premessa», fatto salvo l'accertamento di una somma maggiore o minore
e/o secondo equità, secondo la formula di cui al capo E).
3.1.-
Preliminarmente va detto del procedimento di interpretazione e
qualificazione giuridica della domanda con riguardo tanto
all'attività svolta dal giudice di merito, quanto alla censurabilità
di questa in sede di giudizio per Cassazione, sub specie del vizio di
motivazione, qualora questo afferisca, come nel caso di specie, ad un
preteso error in procedendo.
Infatti,
la censura di insufficiente e contraddittoria motivazione non
consente, in linea generale, al giudice di legittimità l'esame
diretto degli atti di causa; tuttavia, questa Corte ha già avuto
modo di affermare che detta censura, qualora lamenti un vizio
procedurale in cui sia in ipotesi incorso il giudice di merito, non
potendo direttamente ed autonomamente investire detto vizio di
censura (lamenti cioè una sorta di error in procedendo "indiretto"
o di secondo grado), consente, invece, l'esame degli atti, anche se
l'intervento della Corte potrà e dovrà sempre e soltanto appuntarsi
sul profilo motivazionale della sentenza (cfr. Cass. 19 maggio 2004,
n.9471).
Nel
caso di specie, viene in rilievo la questione della sussistenza o
meno del vizio di ultrapetizione in cui sia incorso il giudice di
primo grado, che è stato rilevato dalla Corte di appello con la
conseguente riforma della sentenza appellata. Pertanto, la doglianza
del ricorrente, formalmente inerente agli aspetti motivazionali della
sentenza impugnata, riguarda, in realtà, proprio l'erroneità della
decisione della Corte d'Appello di Firenze laddove ha ritenuto
riscontrata l'ultrapetizione in cui sarebbe incorso il primo giudice.
Va perciò fatta applicazione del principio di diritto sopra
richiamato, che consente a questa Corte l'accesso diretto agli atti
al fine di accertare se, come ritenuto dal giudice d'appello, il
Tribunale di Grosseto si sia pronunciato su capi di domanda non
contenuti nell'atto introduttivo del primo grado di giudizio.
3.2.-
Il motivo è fondato, con riguardo alla motivazione concernente
entrambe le voci di danno.
Quanto
alla prima, relativa al danno alla sfera sessuale del ricorrente in
conseguenza dei postumi permanenti riportati dalia moglie, il giudice
d'appello ha rilevato il vizio di ultrapetizione esaminando una parte
soltanto dell'atto di citazione, sicché la motivazione è
insufficiente per avere trascurato la premessa e le conclusioni
dell'atto di citazione richiamate dall'odierno ricorrente che, lette
nel loro insieme, avrebbero invece dovuto comportare il rigetto del
relativo motivo di appello.
Infatti,
la Corte d'Appello si sofferma soltanto sul passaggio di cui al punto
15 della parte motiva dell'atto di citazione, in cui si fa
riferimento alle "notevoli difficoltà nei rapporti sessuali"
in capo all'attrice *** e sostiene che questa deduzione è da
intendersi come funzionale alla quantificazione del danno subito
dalla medesima, non anche dal marito signor ***. La considerazione,
in sé corretta, tuttavia non tiene conto di quanto dedotto, con
riferimento a quest'ultimo, al punto 11 dello stesso atto di
citazione (in cui si fa riferimento al danno subito dall'attore per
"difficoltà anche nella vita sessuale con la propria moglie"),
nonché, e soprattutto, delle conclusioni sopra riportate.
Riguardo
a queste ultime, va qui ribadito il principio più volte affermato da
questa corte per il quale la domanda di risarcimento di tutti i
danni, patrimoniali e non patrimoniali, proposta dal danneggiato nei
confronti del soggetto responsabile, per la sua onnicomprensività
esprime la volontà di riferirsi ad ogni possibile voce di danno, con
la conseguenza che solo nel caso in cui nell'atto di citazione siano
indicate specifiche voci di danno, l'eventuale domanda proposta in
appello per una voce non già indicata in primo grado, costituisce
domanda nuova, come tale inammissibile (cfr. Cass. 19 maggio 2006, n.
11761; 20 febbraio 2007, n. 3936; 30 ottobre 2007, n. 22884; 17
dicembre 2009, n. 26505).
Orbene,
è vero che nel caso di specie, l'atto di citazione contiene
un'elencazione delle voci di danno richieste, ma tra queste è
ricompresa una voce "di chiusura" che fa riferimento alla
liquidazione in via equitativa di un'ulteriore voce di danno che
viene definita come "morale", in aggiunta e separatamente
rispetto al danno morale riferito alla lesione del proprio diritto
alla salute: tale richiesta deve essere intesa come riferita a tutte
le conseguenze non patrimoniali del fatto illecito sopportate dalle
vittime alla propria sfera personale e relazionale. Ed invero
soltanto la giurisprudenza formatasi negli anni successivi alla data
dell'atto in parola (febbraio 1996) ha, via via, elaborato la nozione
di danno non patrimoniale, come omnicomprensiva dei diversi
pregiudizi non patrimoniali alla persona, comprendendovi (ma non
limitando a questa il giudizio di risarcibilità ex art. 2059 cod.
civ.) anche la sofferenza interiore, tradizionalmente ascritta alla
categoria del danno morale (cfr., da ultimo, Cass. S.U. 11 novembre
2008 n. 26912). La categoria del danno qualificato come "morale"
peraltro, prima dell'anzidetta elaborazione giurisprudenziale, veniva
spesso utilizzata per riferirsi non soltanto all'aspetto del danno
non patrimoniale corrispondente ai ed. patema o turbamento d'animo
(vale a dire alla sofferenza soggettiva risarcibile, di norma, in
quanto causata da reato, ex artt. 2059 cod. civ. e 185 cod. pen.), ma
per ricomprendere in essa altri tipi di pregiudizi non patrimoniali,
ritenuti comunque risarcibili ex art. 2059 cod. civ. Pertanto, così
come si è reputata non erronea la decisione che abbia liquidato agli
aventi diritto una somma unitaria definita "danno morale"
quando il giudicante abbia tenuto conto non solo della sofferenza
interiore, ma di tutte le conseguenze non patrimoniali derivate dal
fatto illecito (cfr. Cass. 30 settembre 2009, n. 20949; 28 novembre
2008, n. 28423), analogamente la domanda di risarcimento di "danno
morale da liquidarsi in via equitativa" è suscettibile di
essere interpretata come riferita anche a tipi di pregiudizio non
patrimoniale diversi dalla mera sofferenza interiore, quando dal
contesto dell'atto risulti evidente che l'istante non abbia inteso
riferirsi esclusivamente a quest'ultima.
Tenuto
conto di quanto appena detto, ed interpretato l'atto di citazione
mediante la lettura combinata della parte motiva e delle conclusioni
richiamate, la motivazione della sentenza d'appello che abbia
trascurato l'esame dell'atto in ogni sua parte e nel suo complesso è
viziata, così come denunciato dal ricorrente.
3.3.-
Ad analoga conclusione si perviene, con riferimento alla seconda voce
di danno, per la quale peraltro il percorso logico-interpretativo
della domanda introduttiva risulta più semplice.
Infatti,
la Corte d'Appello di Firenze ha affermato che, con riguardo
all'ulteriore somma liquidata al *** perlucro cessante in conseguenza
dell'assistenza (presumibilmente) personalmente prestata alla moglie
nel periodo di invalidità della stessa, non vi sarebbe alcun cenno,
nemmeno indiretto, in citazione ed in sede di precisazione delle
conclusioni dinanzi al Tribunale gli attori si riportarono all'atto
introduttivo.
L'assunto
è smentito dalla lettura dell'atto di citazione, che, al punto 27
della parte motiva, contiene la deduzione secondo cui l'attore, a
causa dell'incidente, non avrebbe potuto continuare a svolgere per
intero la propria attività lavorativa, in parte a causa delle
proprie condizioni fisiche ed «in parte perché occupato ad accudire
la propria moglie», con conseguenti esborsi per la propria
sostituzione presso l'ufficio di appartenenza ed anche perdita di
reddito.
3.4.-
La sentenza impugnata va pertanto cassata relativamente alla
statuizione di ultrapetizione sulle voci di danno sopra considerate.
Questa
Corte può decidere nel merito, ai sensi dell'art. 384, comma
secondo, cod. proc. civ., dal momento che gli accertamenti di fatto
compiuti dai giudici del merito e risultanti dalle relative sentenze
non rendono necessari ulteriori accertamenti per la definizione delle
questioni in oggetto (cfr. Cass. 13 giugno 2008, n. 15986).
Il
danno alla salute della signora *** consistente nella grave
deformazione dell'emibacino destro con impotenza partoriendi e con
disturbi alla sfera sessuale è stato accertato dal CTU e dalla
sentenza di primo grado, sul punto confermata in appello ed oramai
irrevocabile. Il fatto illecito, al quale è conseguita la lesione
del diritto alla salute dell'attrice, sì da impedirle normali
rapporti sessuali, è, altresì, lesivo del diritto del marito ad
intrattenere rapporti sessuali con la moglie. La lesione di tale
diritto, che inerisce ad un aspetto fondamentale della persona,
comporta conseguenze dannose risarcibili (cfr. già Cass. 11 novembre
1986, n. 6607; 21 maggio 1996, n. 4671; 17 settembre 1996, n.8305),
ai sensi dell'art. 2059 cod. civ., avendo esse carattere non
patrimoniale (dovendosi perciò su questo punto discostare, anche in
ragione dell'evoluzione giurisprudenziale, cui si è già fatto
cenno, dai precedenti appena richiamati). Inoltre, superando la
definizione di danno "riflesso" (di cui pure è detto nei
citati precedenti) , ed alla stregua dell'orientamento
giurisprudenziale oramai consolidato (quanto meno a far data da Cass.
S.U. 1 luglio 2002, n. 9556), va affermata la risarcibilità del
danno in parola, ex art. 1223 cod. civ., pur sofferto da soggetto
diverso da colei che ha subito le lesioni, poiché conseguenza
normale dell'illecito, secondo il criterio della ed. regolarità
causale.
Trattandosi
di danno non patrimoniale, la liquidazione non può che essere
equitativa ex art. 1226 cod. civ..
Sul
punto va condivisa la valutazione del giudice di primo grado che,
tenendo conto dell'età dei coniugi alla data del fatto, ha liquidato
la voce di danno in parola nell'importo di lire 20.000.000.
3.5.-
Quanto al danno causato dalla necessità di assistere la moglie,
configurato come danno patrimoniale da lucro cessante, va evidenziato
che la sentenza di primo grado ha accertato, conformemente alla CTU,
un periodo di inabilità temporanea della danneggiata *** durato
complessivamente trecentosessanta giorni, con statuizione che, per
come si dirà trattando del secondo motivo del ricorso incidentale, è
oramai irrevocabile. A fronte di tale periodo, ben può essere
ritenuto, che, essendo stato il *** a sua volta, inabile per un
periodo di novanta giorni, fu in grado di assistere la moglie per
almeno duecento giorni; è così superata l'obiezione svolta dalla
controricorrente, fondata sulla coincidenza dei periodi di inabilità
dei coniugi.
In
merito alla determinazione di tale danno, va condivisa la
liquidazione equitativa fatta dal primo giudice, dovendosi peraltro
precisare che questa consegue alla estrema difficoltà di
quantificare le conseguenze pregiudizievoli della forzata, sia pure
parziale, assenza del *** dalla propria attività lavorativa a causa
di detta assistenza (cfr. Cass. 29 settembre 2005, n. 19148; 30
aprile 2010, n. 10607).
In
conclusione, in accoglimento del quarto motivo di ricorso, va cassata
la sentenza d'appello e, decidendo nel merito, va riconosciuta, in
favore del ricorrente *** l'ulteriore somma complessiva di lire
40.000.000, corrispondente alla somma di € 20.658,00, con
conseguente condanna degli intimati, in solido, al pagamento della
somma di € 12.395,00 (corrispondente alla percentuale di
responsabilità del 60%), in valore all'epoca della sentenza di primo
grado, oltre interessi nella misura di cui a tale ultima sentenza.
4.-
Il secondo motivo del ricorso incidentale è inammissibile.
La
ricorrente incidentale denuncia il vizio d «messa motivazione circa
la liquidazione a *** del danno per inabilità temporanea e a *** per
danno morale in via equitativa, in relazione all'art. 360, comma 1,
n.5, c.p.c».
Risulta
dalla sentenza impugnata che gli appellanti hanno proposto, con
l'atto introduttivo del secondo grado di giudizio, tra le altre, due
specifiche censure aventi ad oggetto la liquidazione effettuata dal
primo giudice delle due voci di danno in parola (cfr. pag. 11 della
sentenza); risulta altresì dalla sentenza impugnata che -così come
peraltro denunciato col presente motivo di ricorso incidentale- la
Corte d'Appello non si è affatto pronunciata su tali censure.
4.1.-
Ritiene questa Corte che il vizio della sentenza d'appello non sia
quello di omessa motivazione circa un fatto controverse e decisivo
per il giudizio, bensì quello di omessa pronuncia su censure alla
sentenza di primo grado che -individuando con chiarezza le
statuizioni di primo grado oggetto di gravame e le censure mosse alla
relativa motivazione- davano luogo a distinti e specifici motivi
d'impugnazione (cfr., quanto al requisito della specificità, Cass. 1
febbraio 2007, n. 2217, tra le altre), sui quali il giudice d'appello
si sarebbe dovuto pronunciare.
4.2.-
Va fatta allora applicazione del principio per il quale «l'omessa
pronuncia su alcuni dei motivi di appello - cosi come, in genere,
l'omessa pronuncia su domanda,eccezione o istanza ritualmente
introdotta in giudizio -risolvendosi nella violazione della
corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, integra un difetto di
attività del giudice di secondo grado, che deve essere fatto valere
dal ricorrente non con la denuncia della violazione di una norma di
diritto sostanziale ex art. 360 n.3 cod. proc. civ. o del vizio di
motivazione ex art. 360 n.5. cod. proc. civ., in quanto siffatte
censure presuppongono che il giudice del merito abbia preso in esame
la questione oggetto di doglianza e l'abbia risolta in modo
giuridicamente non corretto ovvero senza giustificare (o non
giustificando adeguatamente) la decisione al riguardo resa, ma
attraverso la specifica deduzione del relativo error in procedendo
ovverosia della violazione dell'art. 112 cod. proc. civ., in
relazione all'art.360 n.4 cod. proc. civ. - la quale soltanto
consente alla parte di chiedere e al giudice di legittimità - in tal
caso giudice anche del fatto processuale - di effettuare l'esame,
altrimenti precluso, degli atti del giudizio di merito e, cosi, anche
dell'atto di appello. La mancata deduzione del vizio nei termini
indicati, evidenzi andò il difetto di identificazione del preteso
errore del giudice del merito e impedendo il riscontro ex actis
dell'assunta omissione, rende, pertanto, inammissibile il motivo»
(così Cass. 27 gennaio 2006, n. 1755; cfr., nello stesso senso,
Cass. S.U. 27 ottobre 2006, n. 23071; Cass. 17 dicembre 2009, n.
26598).
5.-
Considerati la statuizione di inammissibilità del secondo motivo del
ricorso incidentale ed il rigetto del primo, per un verso, nonché
l'accoglimento del quarto motivo del ricorso principale, per altro
verso, la *** - *** S.p.A. va condannata al pagamento, in favore del
ricorrente ***, delle spese del giudizio di cassazione, liquidate
come da dispositivo.
P.Q.M.
La
Corte, riuniti i ricorsi principale ed incidentale, accoglie il
quarto motivo del ricorso principale, cassa la sentenza impugnata nei
limiti di cui in motivazione e, decidendo nel merito, condanna la
resistente *** - *** S.p.A. e gli intimati *** e ***, tutti in
solido, al pagamento in favore di ***della somma di € 12.395,00,
così espressa in valore all'epoca della sentenza di primo grado,
oltre interessi nella misura di cui all'impugnata sentenza.
Rigetta
gli altri motivi del ricorso principale ed il ricorso incidentale.
Condanna
la *** S.p.A. al pagamento delle spese del presente giudizio in
favore dì che liquida complessivamente in € 2.000,00, di cui €
200,00 per esborsi, oltre rimborso spese generali, IVA e CPA come per
legge.
Così
deciso in Roma, il 10 marzo 2011.
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