LA CORTE SUPREMA DI
CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Sentenza 31.5.2011 n.
12048
Composta dagli Ill.mi
Sigg.ri Magistrati:
Dott. MIANI CANEVARI
Fabrizio - Presidente -
Dott. BANDINI Gianfranco
- Consigliere -
Dott. ZAPPIA Pietro -
Consigliere -
Dott. FILABOZZI Antonio -
rel. Consigliere -
Dott. TRIA Lucia -
Consigliere -
ha pronunciato la
seguente: sentenza sul ricorso proposto da:
P.P., - ricorrente -
contro
F. S.A.S.; - intimata -
avverso la sentenza n.
209/2006 della CORTE D'APPELLO di GENOVA, depositata il 31/03/2006
r.g.n. 1045/04;
udita la relazione della
causa svolta nella pubblica udienza del 9/03/2011 dal Consigliere
Dott. ANTONIO FILABOZZI;
udito il P.M. in persona
del Sostituto Procuratore Generale Dott. BASILE Tommaso, che ha
concluso per l'inammissibilità o in subordine rigetto.
Fatto
P.P. ha convenuto in
giudizio davanti al Tribunale di San Remo
la F. sas esponendo di aver lavorato presso l'Agenzia di viaggi di
quest'ultima come impiegata, rivestendo anche il ruolo di direttore
tecnico, dapprima con un contratto di collaborazione coordinata e
continuativa e successivamente con un contratto di lavoro
subordinato, in realtà prestando la propria attività lavorativa
sempre alle dipendenze e sotto le direttive del titolare
dell'impresa, e di avere subito nel corso del rapporto di lavoro, a
causa delle sue richieste di regolarizzazione del rapporto stesso,
una serie di comportamenti vessatori e ostili tendenti alla sua
completa emarginazione professionale e al progressivo isolamento dai
colleghi, comportamenti per i quali aveva sofferto di disturbi sia
fisici che psichici. Ha chiesto quindi la condanna del datore di
lavoro al risarcimento del danno biologico,
del danno alla vita di relazione e del danno morale.
Il Tribunale ha respinto
la domanda ritenendo che non fosse emersa la prova di un
atteggiamento persecutorio nei confronti della dipendente. Anche
l'appello proposto dalla P. è stato respinto dalla Corte di Appello
di Genova, che ha ritenuto che non fosse stata raggiunta la prova di
un tale atteggiamento persecutorio.
Avverso tale sentenza
ricorre per cassazione
P.P. affidandosi a cinque motivi di ricorso. L'intimata non ha svolto
attività difensiva.
Diritto
MOTIVI DELLA DECISIONE
1.- Con il primo motivo
la ricorrente deduce l'omessa, insufficiente e contraddittoria
motivazione circa un fatto controverso decisivo per il giudizio,
sull'assunto che la Corte territoriale avrebbe ritenuto come
circostanza pacifica che nel periodo iniziale si fosse instaurato tra
le parti un rapporto di lavoro autonomo, laddove la ricorrente aveva
dedotto di avere sempre svolto
attività di lavoro dipendente, come, del resto, era chiaramente
emerso all'esito dell'attività istruttoria svolta nel giudizio di
primo grado.
2.- Con il secondo motivo
la ricorrente lamenta omessa valutazione complessiva delle prove e
relativo vizio di motivazione, sul rilievo che il giudice di appello
avrebbe omesso di valutare nel loro complesso gli episodi posti a
fondamento della domanda, omettendo altresì di prendere in
considerazione le risultanze della consulenza tecnica d'ufficio
disposta in primo grado, che aveva confermato l'esistenza dei
disturbi psichici denunciati dalla ricorrente, pur negando il nesso
causale tra tali disturbi e l'attività lavorativa svolta.
3.- Con il terzo motivo
si denuncia violazione o falsa applicazione dell'art. 2087 c.c.,
formulando il seguente quesito di diritto:
"la responsabilità del datore di lavoro per violazione della
personalità morale del lavoratore può sussistere anche in
conseguenza di uno (o più) atti lesivi della dignità e del decoro
personale e professionale dello stesso pur in difetto di un disegno
persecutorio finalizzato ad espellere il dipendente (fattispecie di
mobbing)?".
4.- Con il quarto e il
quinto motivo di ricorso si denunciano omessa, insufficiente o
contraddittoria motivazione in ordine alla domanda di risarcimento
del danno per violazione dell'art. 2087 c.c., sottolineando che
l'esistenza della responsabilità del datore di lavoro, nel caso in
esame, era stata invocata e doveva riconoscersi anche come fondata
sulla violazione dell'art. 2043 c.c., non potendo dubitarsi che i
fatti indicati dalla ricorrente costituissero, al tempo stesso,
violazione di obblighi contrattualmente gravanti sul datore di
lavoro, ex art. 2087 c.c., e violazione del precetto del neminem
laedere gravante sulla generalità dei consociati, ex art. 3043 c.c.
5.- Il ricorso è infondato. Come questa Corte ha già precisato
(cfr. Cass. n. 3785/2009), per mobbing si intende una condotta del
datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta
bel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell'ambiente di
lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti
ostili che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di
persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione
morale e l'emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo
equilibrio fisio - psichico e del complesso della sua personalità.
Ai fini della
configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro sono,
pertanto, rilevanti: a) la molteplicità di comportamenti di
carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati
singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente
sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio;
b) l'evento lesivo della salute o della personalità del dipendente;
c) il nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore
gerarchico e il pregiudizio all'integrità psico - fisica del
lavoratore; d) la prova dell'elemento soggettivo, cioè dell'intento
persecutorio. La domanda di risarcimento del danno proposta dal
lavoratore per il mobbing subito è soggetta a specifica allegazione
e prova in ordine agli specifici fatti asseriti come lesivi (Cass. n.
19053/2005). Cass. 6 marzo 2006, n. 4774 ha poi ritenuto che
l'illecito del datore di lavoro nei confronti del lavoratore
consistente nell'osservanza di una condotta protratta nel tempo e con
le caratteristiche della persecuzione finalizzata all'emarginazione
del dipendente (c.d. mobbing) - che rappresenta una violazione
dell'obbligo di sicurezza posto a carico dello stesso datore
dall'art. 2087 c.c. - si può realizzare con comportamenti materiali
o provvedimentali dello stesso datore di lavoro indipendentemente
dall'inadempimento di specifici obblighi contrattuali previsti dalla
disciplina del rapporto di lavoro subordinato. La sussistenza della
lesione del bene protetto e delle sue conseguenze deve essere
verificata - procedendosi alla valutazione complessiva degli episodi
dedotti in giudizio come lesivi - considerando l'idoneità offensiva
della condotta del datore di lavoro, che può essere dimostrata, per
la sistematicità e durata dell'azione nel tempo, dalle sue
caratteristiche oggettive di persecuzione e discriminazione,
risultanti specificamente da una connotazione emulativa e
pretestuosa, anche in assenza della violazione di specifiche norme
attinenti alla tutela del lavoratore subordinato.
Nella specie, la Corte
territoriale ha preso in esame l'insieme dei comportamenti del datore
di lavoro dedotti come lesivi dalla ricorrente, escludendone ogni
intento persecutorio o emulativo, sia con riferimento agli episodi
collegati, secondo l'assunto, all'insorgenza delle "prime
manifestazioni patologiche sia con riferimento agli episodi
successivi, osservando, quanto a questi ultimi, che dalle risultanze
istruttorie non era emersa l'esistenza di comportamenti connotati da
carattere persecutorio nei confronti della dipendente e che gli unici
episodi, comunque marginali ed isolati, rispetto ai quali poteva
essere espresso un giudizio di biasimo (lancio dello stipendio sul
tavolo, consegna della retribuzione in un sacco di monetine) si erano
verificati "in tempi di molto successivi all'inizio della
manifestazione delle patologie, quando la P. non andava più a
lavorare e si recava in agenzia solo per ritirare lo stipendio ...",
sì che, valutate tutte le circostanze sopra indicate, doveva
escludersi che fosse stata raggiunta la prova di un atteggiamento
emarginante, discriminatorio o persecutorio nei confronti della
lavoratrice.
Si tratta di una
valutazione di fatto, devoluta al giudice del merito, non censurabile
nel giudizio di cassazione
in quanto comunque assistita da motivazione sufficiente e non
contraddittoria; anche perché la ricorrente non ha riportato in
ricorso il contenuto delle deposizioni testimoniali delle quali
assume essere stato omesso ogni esame (tranne quello di una
deposizione, che tuttavia non appare decisiva ai fini della
collocazione temporale degli episodi di cui si discute) e non ha
neppure indicato quali sarebbero gli elementi che la Corte
territoriale avrebbe trascurato di esaminare (in conseguenza della
erronea interpretazione degli atti di causa, denunciata con il primo
motivo) e che avrebbero dovuto orientare la decisione in senso
diverso, sicché le censure espresse nei primi due motivi di ricorso
- al di là della loro corretta impostazione in diritto circa la
definizione dei comportamenti che possono integrare in astratto la
fattispecie del mobbing - rimangono poi confinate ad una mera
contrapposizione rispetto alla valutazione di merito operata dalla
Corte d'appello, inidonea a radicare un deducibile vizio di
motivazione di quest'ultima. Deve ribadirsi, al riguardo, che, come è
stato più volte affermato da questa Corte, la deduzione di un vizio
di motivazione della sentenza impugnata con ricorso per cassazione
conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il
merito dell'intera vicenda processuale sottoposta al suo esame, bensì
la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza
giuridica e della coerenza logico - formale, delle argomentazioni
svolte dal giudice di merito, al quale spetta, in via esclusiva, il
compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di
assumere e valutare le prove e di scegliere, tra le complessive
risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a
dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, senza essere
tenuto ad un'esplicita confutazione degli altri elementi probatori
non accolti, anche se allegati dalle parti. Il vizio di omessa,
insufficiente o contraddittoria motivazione denunciabile con ricorso
per cassazione ai sensi dell'art. 360 c.p.c., n. 5, ricorre, dunque,
soltanto quando nel ragionamento del giudice di merito sia
riscontrabile il mancato o insufficiente esame di punti decisivi
della controversia, prospettati dalle parti o rilevabili d'ufficio,
ovvero un insanabile contrasto tra le argomentazioni adottate, tale
da non consentire l'identificazione del procedimento logico-giuridico
posto a base della decisione, mentre tale vizio non si configura
allorché il giudice di merito abbia semplicemente attribuito agli
elementi valutati un valore e un significato diversi dalle
aspettative e dalle deduzioni di parte (cfr. ex plurimis Cass. n.
10657/2010, Cass. n. 9908/2010, Cass. n. 27162/2009, Cass. n.
16499/2009, Cass. n. 13157/2009, Cass. n. 6694/2009, Cass. n.
42/2009, Cass. n. 17477/2007, Cass. n. 15489/2007, Cass. n.
7065/2007, Cass. n. 1754/2007, Cass. n. 14972/2006, Cass. n.
17145/2006, Cass. n. 12362/2006, Cass. n. 24589/2005, Cass. n.
16087/2003, Cass. n. 7058/2003, Cass. n. 5434/2003, Cass. n.
13045/97, Cass. n. 3205/95).
6.- Il primo ed il
secondo motivo vanno, pertanto, rigettati.
7.- Anche il terzo
motivo, con il quale, sostanzialmente, si contesta una non corretta
interpretazione delle domande formulate con l'atto introduttivo e
della normativa in esso richiamata, deve essere respinto. Invero,
anche a prescindere dalla pur di per se assorbente considerazione che
la ricorrente non riporta puntualmente nel ricorso per cassazione
il contenuto integrale dell'atto introduttivo (non essendo
sufficiente il richiamo di alcuni passi del ricorso ex art. 414
c.p.c. o la riproduzione in forma indiretta dello stesso atto
contenuta nelle premesse del ricorso per cassazione), ne gli esatti
termini in cui la domanda è stata riproposta in appello, va rilevato
che nel ricorso non vengono neppure indicate le norme che la Corte
territoriale avrebbe violato nell'interpretazione di una domanda che
pure, anche secondo la ricorrente, era diretta a sostenere la
sussistenza del mobbing e che negli stessi termini, a quanto si legge
nella motivazione della sentenza impugnata, sarebbe stata riprodotta
nel grado di appello; e tutto ciò senza considerare che
l'interpretazione della domanda e l'apprezzamento della sua ampiezza,
oltre che del suo contenuto, costituiscono, anche nel giudizio di
appello, ai fini della individuazione del devolutum, un tipico
apprezzamento di fatto riservato al giudice del merito e, pertanto,
insindacabile in sede di legittimità, se non sotto il profilo
dell'esistenza, sufficienza e logicità della motivazione (Cass. n.
20373/2008, Cass. n. 19475/2005).
8.- Al rigetto del terzo
motivo consegue logicamente l'assorbimento del quarto e del quinto
motivo, con i quali si deduce il difetto di motivazione in ordine
alla domanda di risarcimento del danno con riferimento alla
responsabilità sia contrattuale che extracontrattuale, trattandosi
di motivi che ripropongono, sotto diverso profilo, le stesse censure
del motivo precedente e che incorrono, dunque, per come formulati,
negli stessi rilievi.
9.- Il ricorso va quindi
rigettato.
10.- Stante il mancato
svolgimento di attività difensiva da parte dell'intimata, non deve
provvedersi in ordine alle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
LA CORTE rigetta il
ricorso; nulla sulle spese.
Così deciso in Roma,
nella camera di consiglio, il 29 marzo 2011.
Depositato in Cancelleria
il 31 maggio 2011
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