CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. LAVORO - SENTENZA 1 dicembre 2010, n.24347 (Licenziamento per rappresaglia o ritorsione)
Motivi della decisione
1 - Col primo motivo di ricorso, che conclude con
adeguato quesito di diritto, la società ricorrente deduce la
violazione e comunque la falsa applicazione delle norme di cui agli
artt. 4 della legge 15 luglio 1966 n. 604, 15 della legge 20 maggio
1970 n. 300, come modificato dall’art. 13 della L. 9.12.1977 n. 903
ed infine 3 della legge 11 maggio 1990 n. 108 nonché per il vizio di
motivazione in ordine all’applicazione di tale disciplina al caso
in esame.
In sostanza, la ricorrente si duole del fatto che, nonostante che in causa fosse pacifico che non ricorrevano nel caso in esame i requisiti numerici per l’applicazione della tutela reale o una delle ipotesi di estensione di quest’ultima previste dalle leggi indicate, la Corte territoriale, senza motivare adeguatamente la propria decisione, abbia sostanzialmente applicato l’art. 18 S.L. ad un licenziamento qualificato come per rappresaglia.
In sostanza, la ricorrente si duole del fatto che, nonostante che in causa fosse pacifico che non ricorrevano nel caso in esame i requisiti numerici per l’applicazione della tutela reale o una delle ipotesi di estensione di quest’ultima previste dalle leggi indicate, la Corte territoriale, senza motivare adeguatamente la propria decisione, abbia sostanzialmente applicato l’art. 18 S.L. ad un licenziamento qualificato come per rappresaglia.
Il motivo in esame rileva esclusivamente come
censura riconducibile all’ipotesi di cui all’art. 360, comma 1°,
n. 3) cod. proc. civ., in quanto il vizio di motivazione
nell’interpretazione o applicazione di una norma giuridica non
assume autonoma rilevanza, avendo questa Corte il precipuo
potere-dovere di interpretare le norme di diritto invocate avanti a
lei, indipendentemente dalla motivazione che sostiene
l’interpretazione delle stesse da parte dei giudici di merito (per
un riscontro, cfr. art. 384, u.c. c.p.c).
Il motivo è infondato.
Come ricordato anche dalla difesa del
controricorrente, questa Corte ha ripetutamente affermato il
principio secondo cui la norma dell’art. 3 della legge 108 del
1990, relativa all’estensione ai licenziamenti nulli in quanto
discriminatori di cui agli artt. 4 della legge n. 604 del 1966 e 15
della legge n. 300 del 1970, delle conseguenze sanzionatone previste
dall’art. 18 della medesima legge n. 300 del 1970, a prescindere
dal numero dei dipendenti del datore di lavoro e anche a favore dei
dirigenti, deve intendersi applicabile in genere ai licenziamenti
nulli per motivo illecito determinante e in particolare a quelli che
siano determinati in maniera esclusiva da motivo di ritorsione o di
rappresaglia (cfr. ad. es., Cass. 15 marzo 2006 n. 5635 e le
decisioni ivi richiamate e, prima ancora, Cass. 3 maggio 1997 n. 3837
o 20 novembre 2000 n. 14982).
A tale orientamento questo collegio intende
attenersi, convinto dell’applicabilità, anche al licenziamento,
della disciplina generale del negozio a motivo illecito determinate e
della portata di principio generale che, anche in conseguenza di ciò,
assume la regola di cui all’art. 3 della legge n. 108 del 1990.
2 - Col secondo motivo, la ricorrente denuncia
l’omessa e comunque insufficiente motivazione della sentenza in
ordine alla deduzione, sostenuta anche dalla richiesta di prove, di
sottrazione dell’aliunde perceptum dal danno da risarcire al
lavoratore in conseguenza del licenziamento nullo, che la società
avrebbe proposto in primo grado, ribadendola poi in appello, col
richiamo alle conclusioni della memoria di costituzione in primo
grado e con la richiesta di riforma dell’ordinanza che non avrebbe
ammesso, tra le altre, anche le prove dedotte in proposito.
Anche tale motivo è infondato.
Anche tale motivo è infondato.
Il collegio condivide al riguardo l’orientamento
consolidato, in sede di legittimità (a partire da Cass. S.U. 3
febbraio 1998 n. 1099), secondo il quale dall’ammontare del danno
da risarcire, in caso di licenziamento dichiarato nullo, inefficace o
annullato con gli effetti di cui all’art. 18 S.L., vanno detratti,
anche d’ufficio, gli importi percepiti dal lavoratore per aver
svolto, medio tempore, altre attività remunerate, purché vi sia
stata regolare allegazione in giudizio dei fatti relativi (anche ad
opera del lavoratore) e gli stessi possano ritenersi incontroversi o
dimostrati per effetto di mezzi di prova legittimamente disposti (ad
es., recentemente Cass. 21 aprile 2009 n. 9464).
In ogni caso, è peraltro necessario che
l’allegazione e la richiesta di prova (ove i fatti non siano
pacifici o già provati) siano specifiche, contengano cioè
indicazioni sufficienti all’identificazione di tali fatti
rilevanti.
Nel caso di specie, viceversa, la società, secondo
quanto dalla stessa riferito, aveva in primo grado unicamente dedotto
che il risarcimento andava “compensato con quanto presumibilmente
percepito” dal lavoratore, aveva deferito interrogatorio formale al
G. e richiesto prova orale sul fatto che non si fosse presentato al
lavoro “... e tanto in virtù del fatto che già si era impegnato
altrove” e infine aveva chiesto, in via istruttoria, tra l’altro,
“... in caso di contestazione, certificazione dei rapporti di
lavoro avuti dal ricorrente dall’11.12.2001 a tutt’oggi al Centro
per l’impiego della provincia di Foggia”.
In appello, poi aveva chiesto la riforma dell’ordinanza che aveva respinto buona parte delle sue istanze istruttorie e richiamato le conclusioni di cui alla memoria di costituzione in primo grado.
Il conseguente giudizio di irrilevanza delle deduzioni probatorie della società da parte del giudice di prime cure è stato confermato dai giudici dell’appello, evidentemente in ragione dell’assoluta genericità delle allegazioni in fatto; e tale conseguente genericità delle prove richieste, sostanzialmente ad esplorandum è, come tale, incensurabile in questa sede di legittimità.
Concludendo, in base alle considerazioni svolte, il ricorso va respinto, con le normali conseguenze in ordine al regolamento delle spese di questo giudizio di cassazione.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente a rimborsare al controricorrente le spese di questo giudizio, liquidate in euro 21,00 per esborsi ed euro 3.000,00 per onorari, oltre spese generali, IVA e CPA.
In appello, poi aveva chiesto la riforma dell’ordinanza che aveva respinto buona parte delle sue istanze istruttorie e richiamato le conclusioni di cui alla memoria di costituzione in primo grado.
Il conseguente giudizio di irrilevanza delle deduzioni probatorie della società da parte del giudice di prime cure è stato confermato dai giudici dell’appello, evidentemente in ragione dell’assoluta genericità delle allegazioni in fatto; e tale conseguente genericità delle prove richieste, sostanzialmente ad esplorandum è, come tale, incensurabile in questa sede di legittimità.
Concludendo, in base alle considerazioni svolte, il ricorso va respinto, con le normali conseguenze in ordine al regolamento delle spese di questo giudizio di cassazione.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente a rimborsare al controricorrente le spese di questo giudizio, liquidate in euro 21,00 per esborsi ed euro 3.000,00 per onorari, oltre spese generali, IVA e CPA.
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.